Le immagini antropomorfe dei buddha e dei bodhisattva sono iconogrammi, aggregati di potenti simbologie organizzate secondo schemi prefissati dalla letteratura canonica. Sia pure in sembianze umane, i corpi dei buddha sono in realtà a loro volta simboli, tanto fonte di ispirazione morale che sostegno alla contemplazione. L’arte del vajrayana (il ‘veicolo della folgore adamantina’) indo-tibetano assume pertanto una valenza rituale, esprimendosi come liturgia di trasfigurazione dell’uomo nel divino.

I portentosi esseri rappresentati in quest’arte, dotati come sono d’una forma libera di esprimersi in un campo d’azione senza confini, provocano trasformazioni profonde nella coscienza di chi vi si accosta. Di fatto, in quanto le energie latenti stimolate dalle pratiche del vajrayana sono considerate estremamente potenti, le meditazioni formali connesse alle divinità sono accessibili solo a studenti qualificati e responsabili sotto la guida protettiva di un maestro.

Le raffigurazioni artistiche degli dei del vajrayana, esistendo per poter entrare in contatto con la consapevolezza ordinaria, assecondano tale umano percepire mostrandosi multiple ai molteplici interlocutori. Un linguaggio che si articoli in un tal modo ha fra gli altri lo scopo di indurre un individuo ordinario a considerare categorie sempre meno evidenti della realtà fenomenica, obbligando  alla percezione di ciò che normalmente ci si rifiuta di vedere. Gradualmente il devoto progredisce attraverso vari livelli di consapevolezza alla fine dei quali trascende la necessità di un supporto materiale sensibile.

L’arte sacra indo-tibetana esprime, in sintesi, il tentativo di imprimere nell’immagine una vigorosa valenza mistica, evocata da un meditatore per potere essere efficacemente trasmessa, con le minori varianti possibili, ad un altro meditatore, utilizzando complesse simbologie, strutture iconogrammetriche e codici iconologici.  Il ‘germe del buddha‘ (tathagatagarbha) presente nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo di visualizzazione e contemplazione di questi mistici diagrammi.

Agli effetti della  pratica liturgico-iniziatica, è necessario avere una chiara cognizione di se stessi quale divinità ed assumere il corrispondente ‘orgoglio divino’ (devamana). In tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale, si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti.  Quando, avendo interrotto le apparenze ordinarie e sviluppato il chiaro apparire di se stessi come divinità, tale apparenza spirituale diviene stabile, le apparenze ordinarie degli aggregati fisici e mentali infine cessano. È allora che appaiono all’occhio della mente i divini aggregati fisici e mentali.