Arti e Culture africane, americane, asiatiche e oceaniane

Arti e Culture africane, americane, asiatiche e oceaniane

Arti e Culture africane, americane, asiatiche e oceaniane

Arti e Culture africane, americane, asiatiche e oceaniane

Arti e Culture africane, americane, asiatiche e oceaniane

Palazzo delle Scienze, primo piano.

 

Africa. L’incontro tra Africa e Occidente: le esplorazioni europee della costa occidentale, i primi oggetti del continente africano in Italia, l’esplorazione dell’interno del continente con le relative raccolte etnografiche, l’arte africana.

Americhe. L’archeologia dell’America Centrale e del Mondo Andino. la sezione delle culture sud-americane, dell’area amazzonica, dei nativi americani delle praterie e delle società inuit.

Asia. L’archeologia e l’etnografia delle culture asiatiche, attraverso collezioni che spaziano dal Vicino e Medio Oriente al Nepal e al Tibet, dall’India alla Cina, dall’Indonesia alla Corea e al Giappone.

Oceania. Sei sezioni tematiche che spaziano dal rapporto dell’uomo con la spiritualità, con l’arte, con il potere, con gli antenati e con la terra.

Gli allestimenti correnti relativi alle aree Africa, Americhe e Oceania risalgono agli anni ‘90 del ‘900, mentre Asia è costituita attualmente da una mostra temporanea allestita nel 2017 e incentrata sulle collezioni del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”.

 

Le origini e la storia delle collezioni

Dal Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico (1875) al Museo delle Civiltà (2016)

Nel 1875, viene fondato il Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma. Primo museo nazionale dopo il 1861, aperto al pubblico nel 1876 nel palazzo del Collegio Romano a Roma.

Secondo le intenzioni del fondatore, Luigi Pigorini, la nuova istituzione nasceva per raccogliere in un museo “centrale”, nella nuova capitale del Regno, la documentazione delle culture preistoriche italiane, europee ed extraeuropee, e delle culture definite “primitive”.

I primi oggetti di natura etnografica del Regio Museo, raccolti tra 1635 e il 1680 dal gesuita Athanasius Kircher, provenivano dalle missioni dei Cappuccini in Congo ed Angola e da quelle dei Gesuiti in Cina, Brasile e Canada, ed erano allora conservati nel Museo Kircheriano.

Al nucleo kircheriano si aggiunsero le “curiosità esotiche” riportate in Europa dopo la scoperta dell’America e conservate nelle più importanti collezioni dell’Italia settecentesca – come quelle del Cardinale Flavio Chigi Senior e del Cardinale Stefano Borgia – e gli oggetti giunti in Italia tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900 a opera di mercanti, viaggiatori e missionari.

Le collezioni di interesse etnografico si arricchirono infatti grazie a donazioni e acquisti. La Casa Reale, per esempio, donò numerosi oggetti, tra cui degli strumenti musicali provenienti dall’Indostan e degli ornamenti femminili delle culture nomadi del nord Africa. Da altri punti di vista, invece, Luigi Pigorini stringeva accordi, sia tramite il Ministero della Pubblica Istruzione che personalmente, con i comandanti delle spedizioni scientifiche transoceaniche organizzate dal Ministero della Marina, affinché fosse riportato in Italia il maggior numero possibile di oggetti e fotografie dalle terre toccate durante le navigazioni. Inoltre la Società Geografica Italiana, che aveva sede nel piano terreno del Collegio Romano, depositava nel Regio Museo gli oggetti di interesse etnografico provenienti dalle sue spedizioni, tra i quali numerosi sono stati quelli raccolti da Giacomo Bove nella Terra del Fuoco e da Romolo Gessi nelle regioni dell’Africa Orientale.

Il primo allestimento del Regio Museo al Collegio Romano era figlio di visioni del mondo che ponevano le civiltà umane su una immaginaria scala evolutiva (funzionale alle narrazioni e alle pratiche coloniali), dove le produzioni provenienti dal continente asiatico erano poste all’apice e costituivano le prime sale del percorso espositivo. L’eventuale visitatore, poi, proseguiva la visita attraverso le sale dedicate alle Americhe, iniziando dal nord del continente e proseguendo verso sud; per poi giungere alle sale dedicate alle raccolte oceaniane e infine a quelle incentrate sugli oggetti africani.

Tra il 1975 e il 1977 il Museo Nazionale Preistorico Etnografico viene trasferito nel Palazzo delle Scienze all’Eur, per lasciare i locali del Collegio Romano al nuovo Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. In questa sede conserva la sua originaria organizzazione in due settori: uno dedicato alla Preistoria e uno all’Etnografia Extraeuropea.

In seguito alla divaricazione scientifica e accademica tra paletnologia ed etnoantropologia, verificatasi già nei primi due decenni del Novecento, il dispositivo della comparazione tra società preistoriche e società di interesse etnografico, messo in campo dal Pigorini, si sarebbe tuttavia inceppato.

L’apice della progressiva crisi degli originari fondamenti museologici dell’Istituto, iniziata al Congresso di Etnografia Italiana del 1911, venne raggiunto negli anni ’70, con il trasferimento delle collezioni nell’attuale sede dell’EUR. Il trasferimento segnò infatti la perdita della memoria di ciò che il Museo era stato al Collegio Romano.

È a partire dai primi anni Novanta, per altro continuando ad attuare interventi conservativi sulle collezioni, che il Museo ha avviato il suo rinnovamento espositivo, che è ancora oggi visibile negli allestimenti attuali.

Nel 2016 le collezioni del Museo Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” sono confluite nell’attuale Museo delle Civiltà, il quale è tuttora un polo di eccellenza dedicato alla ricerca scientifica e collabora attivamente con il mondo accademico in un’ottica internazionale.

Sempre nel 2016, inoltre, nel Museo delle Civiltà sono confluite anche le collezioni del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, le quali hanno considerevolmente arricchito l’area del Museo incentrata sulle arti e le culture asiatiche.

Le collezioni africane, americane, asiatiche e oceaniane

Un progetto così ambizioso come la fondazione del Reale Museo Preistorico-Etnografico di Roma impose a Luigi Pigorini di instaurare, con continuità, rapporti con studiosi ed appassionati collezionisti italiani ed esteri.

La fondazione del Reale Museo Preistorico-Etnografico di Roma a opera di Luigi Pigorini si inseriva in un’epoca di grandi viaggi di esplorazione, intrapresi da romantici, mercanti, funzionari, avventurieri, esploratori, artisti, militari, naturalisti.

Le collezioni giunte in Museo in quei primi anni dalla sua fondazione fanno risaltare la temperie di un’epoca in cui questi personaggi furono tutti percorsi dalla medesima curiosità intellettuale nei confronti dell’umano e della sua storia.

In questa prima fase degli studi antropologici prevale una certa casualità nella scelta degli oggetti etnografici: l’esigenza di un metodo scientifico rigoroso verrà avvertita, e quindi teorizzata, solo nel XX secolo.

Di seguito le quattro aree tematico-geografiche in cui le collezioni di natura etnografica sono esposte all’interno del Museo delle Civiltà.

Africa

Sull’origine del termine Africa non vi è un accordo unanime, anche se l’ipotesi più plausibile è che il termine derivi dalla tradizione letteraria toscana e italiana, per cui con Africa si intendeva la “terra degli Afri”, il nome latino dato ad alcune genti che abitavano il Nord Africa. Oggi come in passato il continente africano è un territorio poliedrico e multiforme, di cui le collezioni presenti in questo museo rappresentano solo un frammento.

Le collezioni esposte sono ordinate attraverso tre ambiti:  

Primi oggetti africani in Italia

Agli inizi dell’Età Moderna i paesi europei conoscevano soltanto la parte costiera dell’Africa. I navigatori portoghesi avevano esplorato le coste occidentali del continente in poco più di 50 anni, tra il 1434 e il 1488. Raggiunto il Capo di Buona Speranza, essi avevano aperto la via marittima che proseguiva oltre Zanzibar, in direzione delle Indie. La configurazione interna del continente restava ancora per loro sconosciuta. I portoghesi si erano limitati a installare una serie di scali costieri che servivano da base per i vascelli mercantili e per l’azione dei missionari cattolici.

Missionari e mercanti del XVI e XVII secolo riportarono dall’Africa alcuni oggetti che apparivano loro particolarmente curiosi al loro sguardo, scegliendo forse quelli che suscitavano maggiore meraviglia per la raffinatezza della lavorazione e per la rarità del materiale impiegato. Gli oggetti confluirono per lo più nelle raccolte d’arte delle corti reali e principesche dell’Europa rinascimentale e barocca, nei tesori delle cattedrali o nelle Camere delle Meraviglie (dal tedesco Wunderkammer) di alcuni personaggi eminenti. Queste collezioni diventeranno, nel XIX e XX secolo, il nucleo di molte delle raccolte museali etnografiche di oggi.

L’esplorazione europea dell’interno del continente: le raccolte etnografiche

Le perlustrazioni europee all’interno del continente iniziarono e si compirono nell’arco di un secolo, tra fine del ‘700 e seconda metà dell’‘800, sull’onda delle prime esplorazioni individuali (Mungo Park, René Caillé, Heinrich Barth), e successivamente delle spedizioni promosse dalle Società Geografiche.

Le vie utilizzate per accedere ai territori interni seguivano spesso i grandi fiumi, consentendo così di tracciare le carte idrografiche dell’Africa. Il corso e le sorgenti del Nilo furono mappati per ultimi, tra il 1857 e il 1864, in seguito ai viaggi di Richard Burton, Johll H. Speke e James A. Grant.

L’esplorazione dell’interno divenne  completa occupazione soltanto alle soglie del ’900, quando, dopo il congresso di Berlino (1884), si ebbe la prima spartizione del continente fra le potenze europee.

In concomitanza con la politica di espansione coloniale, nacquero, in Europa e negli Stati Uniti d’America, i grandi musei etnografici, i quali raccoglievano e classificavano armi, utensili ed ogni altro tipo di oggetto.

Gli oggetti conservati nei musei etnografici sono oggi un documento di visioni del mondo, legate a immaginari razzisti e fuorviantemente ritenute scientifiche, desuete e problematiche per un allestimento museale a tema demoetnoantropologico contemporaneo, servono però ancora ad  illustrare la mentalità di superiorità delle culture europee dell’epoca e le differenze nel modo di considerare tali oggetti tra chi li fabbricava e utilizzava e chi, invece, li sottraeva al loro contesto.

L’arte africana

L’arte proveniente dall’Africa si esprime in una vasta gamma di materiali e forme. La plastica lignea – maschere e statuaria – resta comunque il contributo della tradizione artistica del continente più rappresentato all’interno dei musei etnografici dell’epoca.  

Agli inizi del Novecento, poi, l’incontro massiccio con queste forme di espressione creativa influì sul processo di rivoluzione delle arti in Europa. Con le correnti del Cubismo, dell’Espressionismo, del Futurismo e del Fauvismo iniziava così la ricerca di nuove soluzioni formali in aperta rottura con lo stile accademico allora imperante in Europa.

America

L’origine del termine America deriva dalla scelta del cartografo tedesco Martin Waldseemüller di ispirarsi al nome di Amerigo Vespucci, esploratore fiorentino che durante le sue navigazioni incontrò il continente americano nominandolo Nuovo Mondo e lasciando molti riferimenti riguardo a esso nei suoi documenti.

Le collezioni sono incentrate sull’archeologia della Mesoamerica, dell’America Centrale e del Mondo Andino, e gli oggetti esposti, divisi per aree tematiche, illustrano la vita delle popolazioni che abitarono il continente, tra attività domestiche e pratiche rituali.

La Mesoamerica

Dopo un discorso introduttivo sul popolamento del doppio continente americano e l’incontro con i primi colonizzatori europei, testimoniato da un cemi relativo alla civiltà Taíno, è presentato lo sviluppo storico dell’antica Mesoamerica e la sua evoluzione culturale, dall’affermazione degli Olmechi (1700-300 a.C.), alle espressioni artistiche dei Mixtechi, degli Zapotechi, dei Totonachi e dei popoli dell’occidente americano, sino ad arrivare all’arte degli Aztechi (1300-1521 d.C.).

Il Mondo Andino

Gli oggetti presenti in questa parte dell’esposizione, propri delle culture che abitarono nei secoli l’area andina, sono prettamente ceramiche, tessuti, sculture in pietra e metalli.

Le culture andine, sfruttando le molteplici risorse offerte da un habitat tanto diversificato, svilupparono a partire dal 1000 a.C. una serie di società contraddistinte da una cultura raffinata e da una tecnologia altrettanto mirabile.

Da Chavín de Huántar, che riunì una vasta parte del territorio peruviano, si passò all’affermazione di alcune culture regionali (200 a.C.-600 d.C.), sia costiere (Moche, Paracas, Nasca) che serrane (Recuay, Pukara), di cui si ha testimonianza delle sofisticate produzioni artistiche e artigianali di tessuti e terracotte.

Verso il 600 d.C., poi, il territorio fu popolato dalla società di Tiwanaku, il cui centro si trovava sulle rive del lago Titicaca; mentre in seguito ci fu una nuova affermazione delle culture locali (1000-1450 d.C.), come i Chimú della costa settentrionale, i Chincha di quella meridionale e i cosiddetti “regni aymara”.

L’esposizione affronta anche l’ultima delle società storiche attestate nell’area, quella degli Inka, che seppero unificare politicamente il territorio andino fra la metà del 1400 e gli inizi del 1500, per poi illustrare anche il tema dell’incontro dell’Impero Inka con il conquistador spagnolo Francisco Pizarro e con gli europei.

Asia

Una delle prime attestazioni del termine Asia si trova in Erodoto, il quale lo utilizza nelle Guerre persiane per riferirsi all’Anatolia e all’Impero Persiano con l’obiettivo di distinguerli dalla Grecia e dall’Egitto. L’origine di questo toponimo, fra le numerose ipotesi avanzate, è stata ricercata anche nell’accadico asu, “sorgere” in riferimento al sole, giungendo poi estensivamente a indicare appunto le terre poste a est. In seguito il termine sarà utilizzato sempre più frequentemente, fino ad arrivare all’uso attuale come nome dell’intero continente asiatico.

La sezione Asia del Museo delle Civiltà è composta da oggetti provenienti dal Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” e dal Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, confluiti nella struttura nel 2016.

Le collezioni asiatiche del Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” (1875) confluiscono nel Museo delle Civiltà (2016)

Gli oltre 15.000 oggetti delle collezioni asiatiche del Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” si devono per la maggior parte ad acquisti e doni di diplomatici, viaggiatori, commercianti, studiosi e artisti presenti in Asia intorno alla fine del secolo scorso. Queste collezioni furono, nella maggior parte dei casi, raccolte quando i rapporti con i paesi occidentali erano ancora poco intensi. Per esempio la collezione di oggetti giapponesi ceduta al Museo in due riprese, nel 1888 e nel 1916, da Vincenzo Ragusa è costituita da oggetti che Ragusa raccolse durante il suo soggiorno in Giappone tra il 1876 e il 1882, un periodo in cui da pochi anni il paese aveva riaperto i suoi confini all’esterno.

Tra le collezioni conservate vi è quella di Giuseppe Ros, interprete consolare italiano in Cina che donò la sua collezione di 2000 oggetti connessi alla vita domestica cinese al Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma nel 1924; e la collezione Fea, costituita da oggetti di provenienza birmana e acquistata dal Museo nel 1889. Oltre a quelle appena citate, inoltre, il Regio Museo acquisì anche la raccolta di Enrico Hillyer Giglioli, all’interno della quale spiccano le giade, sia cinesi che giapponesi, e gli oggetti di ambito cultuale buddhista provenienti dal Tibet, e la collezione di strumenti musicali donata dal Raja Sourindro Mohun Tagore a Re Vittorio Emanuele II e da questi ceduta al Museo nel 1879.

Le collezioni del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” (1957) confluiscono nel Museo delle Civiltà (2016)

Il Museo Nazionale d’Arte Orientale fu fondato nel 1957 e aperto al pubblico nel 1958 nella precedente sede di Palazzo Brancaccio a Roma, per dotare «il nostro Paese di un Istituto di cui è privo, pur vantando l’Italia una lunga tradizione di ricerche e di studi orientalistici» (DPR n. 1401/1957).

Nel 2010 il Museo è stato ufficialmente intitolato a Giuseppe Tucci (1894-1984), uno fra i massimi accademici specializzati in culture asiatiche del Novecento, che ne promosse la fondazione e alle cui collezioni personali appartiene una parte degli oggetti acquisiti, reperiti dallo studioso tra il 1928 e il 1954 in Nepal e Tibet.

Il nucleo iniziale delle collezioni è formato dai reperti depositati dall’allora Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), e da reperti provenienti dagli scavi svolti dalle missioni archeologiche italiane in Iran, Afghanistan e Pakistan.

Le raccolte furono poi incrementate dall’ operato dello Stato italiano, il quale portò avanti trattative presso gli uffici esportazioni e acquistò sul mercato antiquario numerosi reperti a partire dall’istituzione del Museo. A questo riguardo si segnala il prezioso rilievo di età partica raffigurante Batmalku e Hairan da Palmira (Siria): l’opera, già parte della collezione Stroganoff, venne infatti acquistata dallo Stato italiano presso l’antiquario Sangiorgi nel 1971. Inoltre alcuni oggetti delle collezioni sono il frutto di una fiorente politica di scambi, come nei casi della Thailandia e del Pakistan.

Tra le donazioni che hanno contribuito ad arricchire il Museo vi sono, per citarne alcune tra le tante, quella di arte birmana di Giovanni Andreino; quella di Giacomo Mutti, composta da oggetti provenienti da vari contesti del mondo indiano; l’importante donazione di ceramiche coreane delle dinastie Goryeo e Joseon effettuata dalla Repubblica di Corea nel 1960; la collezione di oggetti provenienti dalla Cina donata nel 1970 da Manlio Fiacchi e Antonia Gisondi; la donazione di opere coreane contemporanee da parte degli artisti; e la cospicua collezione di importanti tipologie ceramiche iraniche dall’Età del Ferro all’Età Imperiale donata nel 2017 da Pompeo Carotenuto. Inoltre Francesca Bonardi, moglie di Giuseppe Tucci, donò nel complesso 5000 pezzi al Museo Nazionale d’Arte Orientale, arricchendo ancora di più le collezioni museali che attualmente sono costituite in totale da circa 40.000 pezzi.  

Il percorso museale

Le collezioni del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” sono suddivise nei seguenti temi geografico-culturali: Vicino e Medio Oriente; Archeologia e Arte del Mondo Islamico; Antichità Sudarabiche; India; Gandhara (ovvero, le aree dell’antico Nord-Ovest indiano); Tibet e Nepal; Sud-Est Asiatico; Cina; Corea; Giappone e Vietnam.

In attesa del nuovo allestimento, il Museo delle Civiltà ospita un’esposizione temporanea di 650 oggetti provenienti dalle collezioni del Museo “Giuseppe Tucci”, esposti in base all’area geografica di provenienza e suddivisi nelle seguenti sezioni.

Vicino e Medio Oriente espone oggetti che testimoniano la lunga storia del Medio Oriente, con particolare riguardo all’area iranica. L’Età del Bronzo è documentata sia dai reperti di Shahr-i Sokhta (IV-II millennio a.C.), centro urbano dell’Iran sudorientale sia dalla produzione vascolare dipinta riferibile alle culture di Tepe Siyalk e di Tepe Giyan, rispettivamente nell’Iran centrale e occidentale. L’Età del Ferro (XV-VI sec. a.C.) illustra le profonde innovazioni tipologiche e formali, che caratterizzano la produzione vascolare e la metallurgia delle culture regionali iraniche, unitamente all’apporto delle culture nomadiche delle steppe eurasiatiche. L’arte imperiale di Achemenidi, Parti e Sasanidi (VI sec. a.C. – VII sec. d.C.) riflette la nuova dimensione politica internazionale dell’Iran. Ceramiche, sculture, argenti, bronzi, gioielli e vetri testimoniano, tra continuità e innovazione, la vitalità dell’arte delle steppe eurasiatiche, legami con le culture siro-mesopotamiche di età preclassica e con il mondo iranico e greco, nonché rapporti con l’Estremo Oriente e con l’Occidente romano e bizantino.

Mondo Islamico, che spazia in un arco temporale che va dall’VIII sec. al XIX sec., comprende opere in ceramica e metallo, nonché elementi di decorazione architettonica in terracotta e marmo provenienti da un palazzo scavato da una missione dell’IsMEO a Ghazni in Afghanistan. La collezione afghana del museo è infatti la più ricca al mondo a parte le collezioni di Kabul e Ghazni. Sono esposti inoltre oggetti provenienti dall’area irachena, dalla Spagna moresca, dall’India, dal Pakistan e dalla Turchia ottomana; e notevole è poi la collezione iraniana, che comprende anche un dipinto a olio e opere in papier mâché del periodo qajar.

Antichità Sudarabiche ospita una selezione di una delle più ricche collezioni al mondo al di fuori dello Yemen. La raccolta comprende opere di varia natura databili dal VIII sec. a.C. al VII sec. d.C., e si è costituita grazie a donazioni e acquisti da parte di medici e politici italiani che soggiornavano in Yemen e in Eritrea prima e dopo la seconda guerra mondiale.

India comprende opere della ‘grande tradizione’ e oggetti di ambito popolare, tra cui sculture e stele di provenienza templare, miniature, bronzi e dipinti folcloristici che approfondiscono temi e personalità divine del pantheon hindu, per un periodo che va dal IX e il XX secolo.

Gandhara è incentrata su una selezione di rilievi in scisto, scene della vita di Buddha, figure di bodhisattva e di donatori, suddivisi per gruppi stilistici, provenienti dal sito di Butkara I, nella Valle dello Swat, scavato dalla missione archeologica italiana in Pakistan. L’arte del Gandhara è un fenomeno figurativo a contenuto buddhista, fiorito tra il I e il V secolo d. C. nei territori dell’antica India del Nord-Ovest (attuali Pakistan settentrionale ed Afghanistan meridionale), caratterizzato da influssi classici – ellenistico-romani – indiani e iranici.

Tibet e Nepal comprende statue in lega metallica, suppellettili e oggetti rituali. Le collezioni, da cui è tratta la selezione di oggetti esposta, sono strettamente connesse alla storia della ricerca scientifica italiana in Asia, nonché alla vita e all’opera di Giuseppe Tucci, asianista riconosciuto a livello internazionale per essere il padre della tibetologia contemporanea. Delle collezioni fanno parte dipinti arrotolabili su stoffa, statue in lega metallica, cretulae votive, affreschi, suppellettili e oggetti rituali, oltre a gioielli e a parti di mobili. I dipinti su stoffa (thang ka) e le cretulae (sa tsha tsha) fanno di questa una tra le più importanti collezioni d’arte tibetana del mondo, sia per qualità che per varietà. L’importante donazione di Francesca Bonardi-Tucci, perfezionata nel 2005, ha arricchito in modo significativo anche questa parte del Museo, grazie a opere d’arte himalayana.

Sud-Est Asiatico ospita reperti di epoca khmer dalla Cambogia e dalla Thailandia, soprattutto bronzetti, sculture in arenaria e ceramiche; oggetti cultuali, busti e teste del Buddha afferenti all’arte thailandese databili tra il lX e il XVIII secolo; statue lignee dorate, testi su foglie di palma laccati, contenitori votivi di ambito buddhista, e strumenti musicali e statuine di attori del Ramayana provenienti dal Myanmar, databili al XIX secolo, in epoca Konbaung (1752-1885); e infine una una preziosa raccolta di oreficeria indonesiana databile tra il IV e XV secolo, una serie di figure in terracotta a grandezza naturale, e le marionette del teatro delle ombre giavanesi (Wayang kulit).

Cina comprende manufatti che vanno dal Neolitico al XX secolo, tra cui bronzi, giade, dipinti e tessuti; l’esposizione è incentrata su alcune opere relative al Buddhismo, introdotto in Cina dall’India verso il I secolo attraverso la Via della Seta, tra cui quattro teste in pietra di Buddha e bodhisattva provenienti dal tempio in grotta di Tianlongshan, e una selezione di ceramiche che spazia dalle statuine funerarie della dinastia Tang (618-907) ai vasi monocromi dell’ultima dinastia imperiale dei Qing (1664-1911).

Corea espone bronzi e ceramiche dal periodo dei Tre Regni (300-668) alla fine della dinastia Joseon (1392-1010); la piccola collezione è arricchita da alcune opere contemporanee (fine XX sec. – inizio XXI sec.), donate dai maestri artigiani e dagli artisti che le hanno realizzate.

Giappone dà una panoramica delle collezioni, dai manufatti archeologici agli specchi e agli oggetti liturgici in bronzo dei periodi Heian (794-1185) e Kamakura (1185-1333); ed espone un Buddha ligneo di inizio periodo Edo (1615-1868) e alcune ceramiche, due delle quali provenienti dalla bottega di Kitaoji Rosanjin (1883-1959) donate dall’artista all’IsMEO.  

Vietnam, costituita principalmente dal lascito testamentario di Ivanoe Tullio Dinaro (1940-1993), è composta da ceramiche invetriate prodotte tra il XII e il XVIII sec., considerate una delle manifestazioni più sofisticate dell’arte asiatica. 

Il 19 settembre 2023 il Museo delle Civiltà e ISMEO hanno presentato Italy-Thailand: an Everlasting Friendship, a cura di Fiorella Rispoli e Roberto Ciarla: un riallestimento temporaneo delle collezioni del Sud-Est Asiatico in occasione della visita della delegazione dalla Thailandia composta dal Prof. Piriya Krairiksh – tra i principali studiosi di storia e storia dell’arte del Sud-est Asiatico – e alcuni rappresentanti della Piriya Krairiksh Foundation.

Questo riallestimento, che prende spunto dalla mostra organizzata nel 2019 presso il Museo delle Civiltà Antico Siam: lo Splendore dei Regni Thai, a cura di Fiorella Rispoli e Roberto Ciarla, presenta una serie di opere precedentemente custodite nei depositi museali, affiancando e integrandosi nel processo di progressiva revisione che il Museo delle Civiltà sta conducendo per aggiornare la storia e le ideologie istituzionali che hanno contribuito alla formazione delle sue collezioni.

“L’occasione della visita del Prof. Piriya Krairiksh e dei membri della sua Fondazione ha fornito l’occasione per realizzare un allestimento temporaneo delle collezioni del Sud-Est Asiatico che condividesse con il pubblico una visione non stereotipata di una cultura antica e al contempo straordinariamente moderna” afferma Andrea Viliani, Direttore del Museo delle Civiltà. Il riallestimento, dedicato all’archeologia e all’arte della Thailandia, esplora la relazione tra Thailandia e Italia, che determinò nel 1958 l’invio in Italia di 16 manufatti di epoca Dvāravatī, Khmer-Lopburi e Ayutthaya dal Museo Nazionale di Bangkok, in scambio di altrettanti oggetti, tra cui ceramiche etrusco-italiche e romane e sculture in pietra di epoca imperiale.

Tra le opere esposte, oltre ad alcuni dei manufatti oggetto di scambio con il Museo Nazionale di Bangkok, anche la collana di pietre semipreziose e perline di vetro di epoca proto-Dvāravatī, donata all’inizio degli anni Sessanta dal Vice-Maresciallo dell’Aria Montree Harnvichai, così come lo splendido Too Phra Tamma, armadio-libreria per custodire testi sacri (1850-1870) in legno di teak decorato in foglia d’oro, donato del 14° Patriarca del Buddhismo Thai, Somdet Phra Ariyavangsagatayana a Giuseppe Tucci, e restaurato nel 2019 presso il Laboratorio di Conservazione e Restauro del Museo delle Civiltà.

Oceania

L’Oceania, la cui etimologia indica convenzionalmente un’area della superficie terrestre coperta per la maggior parte dalle acque dell’Oceano Pacifico, è un continente costituito da migliaia di isole disperse nell’Oceano e dalla grande massa continentale dell’Australia. Le terre emerse sono raggruppate in grandi aree geografiche: la Polinesia, la Micronesia, la Melanesia e l’Australia.

Le collezioni si articolano in sei diverse sezioni tematiche.

Case degli uomini, case degli spiriti: la Nuova Guinea

Le haus tambaran sono delle grandi capanne a due piani che possono arrivare fino a 15 m di altezza e a 40 m di lunghezza. Tradizionalmente l’accesso a questi edifici è riservato agli adulti di sesso maschile: all’interno vi sono conservanti gli oggetti sacri, le immagini degli antenati e degli spiriti. La maggior parte delle cerimonie, come i riti di iniziazione, si svolgono all’interno delle “case degli uomini”. L’architettura di questi edifici riflette l’organizzazione sociale del gruppo, e ognuno dei clan del villaggio ha un suo spazio all’interno della casa degli uomini.

La “casa degli uomini” (haus tambaran) è tutt’oggi uno dei centri della vita di molte comunità della Nuova Guinea, tanto che è sulle loro estetiche che è stata realizzata la facciata del Parlamento Nazionale della Papua Nuova Guinea.

Arte e società

Gli abitanti degli arcipelaghi ad est della Nuova Guinea sono collegati in un complesso sistema rituale di scambi chiamato kula. Nel corso di questi scambi le traversate tra le isole vengono compiute con delle grandi canoe cerimoniali. Queste canoe a bilanciere, lunghe fino a 12 metri, hanno alle estremità delle tavole di legno scolpito e dipinto. La decorazione di queste tavole ha un contenuto simbolico estremamente complesso; i singoli elementi decorativi incisi e dipinti sulle tavole esprimono i valori estetici e quelli associati alla mitologia e alla ritualità. Le tavole sono opera di artisti che godono di un elevato prestigio sociale.

La competizione per il potere

Nelle società degli arcipelaghi delle Isole Salomone e della Nuova Caledonia la figura di maggior rilievo è quella del capo della comunità, che, attraversando i secoli e le temperie socio-culturali, è tuttora un’istituzione viva.

La carica non è ereditaria, ma tradizionalmente in passato veniva conquistata con una dura competizione basata sulla ricchezza e sul prestigio, sulle capacità oratorie, ecc. L’incontro con gli europei, che portò all’introduzione delle armi da fuoco e di nuovi beni, ebbe un’influenza non indifferente sulle dinamiche di potere all’interno dei gruppi per l’elezione del capo della comunità.

Il culto degli antenati

Il culto degli antenati è una forma di espressione religiosa comune tra le popolazioni dell’Oceania. In Nuova Irlanda (attualmente provincia della Papua Nuova Guinea), un’isola al largo delle coste settentrionali della Nuova Guinea, questo culto assume forme particolarmente rilevanti. Per commemorare i defunti si tengono periodicamente dei cicli di cerimonie (chiamate malagan) che culminano con l’esibizione di danzatori mascherati davanti alle grandi sculture che rappresentano gli spiriti degli antenati e gli spiriti della foresta. La festa è anche un’occasione per rinsaldare i vincoli all’interno dei gruppi di parentela e per aumentare il prestigio e il potere del clan che organizza la cerimonia.

La sacralità del potere

Le società polinesiane erano divise secondo una rigida struttura gerarchica. Il potere della classe sociale più elevata era determinato dall’origine divina dei suoi membri e dalla “quantità” di “potere divino”, mana, posseduto; il capo era colui che possedeva più mana. Il potere divino diminuiva con il passare delle generazioni, e veniva mantenuto con un’accorta strategia matrimoniale tra le persone di rango più elevato. Gli aristocratici esibivano una serie di insegne di rango, costituite da ornamenti, oggetti cerimoniali e tatuaggi che contenevano l’essenza vitale del proprietario ed erano partecipi del suo mana.

L’uomo e la terra

Secondo gli indigeni australiani tutti gli esseri viventi sono legati al loro territorio, le cui caratteristiche morfologiche (le colline, le rocce, le anse dei fiumi, ecc.) sono le “tracce mitiche” degli esseri ancestrali. Questi esseri sono diventati gli elementi del paesaggio nei quali è ora presente il loro spirito. L’individuo e il suo gruppo di parentela hanno quindi un profondissimo legame con il territorio: un vincolo spirituale unisce l’uomo e la terra sin dalla nascita e per sempre. Questo vincolo profondo e inscindibile è rappresentato attraverso le pitture su corteccia, le maschere, gli scudi dipinti e la pittura corporale.

L’occupazione europea ha influenzato le culture dei popoli dell’Oceania: in Australia gli indigeni sono stati costretti ad abbandonare le loro terre e i loro stili di vita; e questi costituiscono attualmente la fascia più povera della società australiana con gravi problemi di disgregazione sociale.