Un dipinto himalayano su stoffa (thangka) raffigurante la ‘ruota del divenire’ (bhavachakra)

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Bhavachakra, la “Ruota del divenire”
MuCiv ex inv. MNAO 18910
Thangkha raffigurante la psico-cosmografia che illustra il ciclo delle rinascite inconsapevoli determinate dalla ‘legge di causa-effetto’ (karma)
Dipinto su stoffa, cm 127×98
Nepal, sec. XIX

Nella tradizione vajrayana del mahayana la buddhità nonché il cammino verso di essa possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico; il mandala viene proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo. Il mandala (lo ‘psicocosmogramma’, per usare la definizione – divenuta oramai classica – formulata da Giuseppe Tucci, che illustra i rapporti sottili tra il microcosmo umano e l’universo) può anche definirsi il mondo dell’essere, presieduto dalla verità; il bhavachakra (in sanscrito, ‘ruota del divenire’; in tibetano, ‘ruota della vita’ o Srid.Pa’i.‘Khor.Lo, sorta di mappa mentale delle concezioni poste alla base della psico-cosmologia buddhistica) è di contro il mondo del divenire, il samsara divorato dall’oblio rappresentato da Yama, il dio dei morti nella cosmologia buddhistica, che lo stringe tra le proprie fauci ad evidenziarne l’immanente dolore.

Dal bhavachakra emerge, in una forma volutamente didattica resa possibile anche dalla evidente capacità di graficizzazione in quest’arte di concetti estremamente complessi, la descrizione della cosmologia buddhistica e l’introduzione alla relativa soteriologia, nonché – a un livello più antropologico – la centralità della ‘preziosa rinascita umana’.
Il Buddhismo mahayana (cui afferisce il tantrismo vajrayana indo-tibetano) elegge quale parametro di santità la figura del bodhisattva (l’‘essere del risveglio’) che, motivato da altruismo, continua a reincarnarsi (nel senso di rinascere consapevolmente) finché tutti gli esseri non siano stati salvati. Il bodhisattva si sforza di raggiungere il risveglio (bodhi) iniziando dal progressivo annullamento delle ‘emozioni dissonanti’ (klesha) che costringono gli esseri trasmigratori a rinascere, inconsapevolmente e senza possibilità di scelta, negli ambiti esistenziali che costituiscono il ciclo delle esistenze, o samsara, rappresentato dal bhavachakra: inferni, spiriti famelici, animali, esseri umani, titani e divinità mondane. Si tratta di sei contesti ontologico-percettivi posti in essere non dalla libera volontà, o da un dio creatore, o – come acutamente osservato da Desideri – dal ‘fato’, bensì dal karma, l’implacabile legge di causa-effetto alla quale lo studio e la pratica del dharma (l’insegnamento del Buddha) sono contrapposti quali unici antidoti efficaci.

È opportuno almeno introdurre il portato ideologico sotteso a questa produzione artistica, iniziando da un rapido accenno a quell’India che ad oggi, come nei secoli precedenti, resta riferimento culturale alto e imprescindibile della cultura tibetana. Per accostarsi dunque in modo efficace a ciò, è utile fare un breve accenno a motivazioni profonde, ricordando come le molte e varie ideologie religiose, presenti attraverso i millenni nel sub-continente, abbiano inteso l’arte religiosa anche alla stregua d’una ancilla theologiae.
Il principio, tanto estetico che metafisico, che informa di sé tutta l’arte indiana in buona sostanza ruota intorno al concetto di rasa (emozione, sapore, tinta). I manuali chiamati shilpashastra, destinati agli shilpin o rupakara (‘facitori di forme’), ovvero agli artisti, muovono dal presupposto che una volta riuscito ad organizzare le forme materiali in modo da determinare efficacemente un rasa, l’artista divenga veicolo della divinità. Egli, comunicando attraverso forme sensibili i contenuti invisibili del divino, determinerebbe negli uomini, fruitori dell’avvenimento artistico e soprattutto del rasa da esso evocato, una sospensione, una pausa nell’altrimenti ineludibile susseguirsi di cause e di effetti (inverati dal karma) che non permette agli esseri ordinari di riconoscere la propria natura profonda, immutabile ed eterna. L’arte è dunque da intendere quale veicolo privilegiatissimo di purificazione, trasformazione ed infine salvezza dal mondo contaminato delle rinascite impure (samsara). L’immagine sacra, espressa nei vari supporti materiali come pure nell’architettura, è in India come per l’arte cristiano ortodossa la vera “porta regale”, l’icona dalla quale la divinità si affaccia dalla luce d’oro dell’assoluto protendendosi compassionevole verso il mondo degli uomini, per insegnare loro il sentiero dell’auto-riconoscimento attraverso il gioco sottile dell’analogia tra ciò che è visibile e temporale e ciò che è invisibile ed eterno (cfr. 2 Cor. 4.18).

Venendo ora più da presso all’argomento, le immagini antropomorfe dei buddha e dei bodhisattva vanno considerati iconogrammi, aggregati di potenti simbologie organizzate secondo schemi prefissati dalla letteratura canonica. Sia pure in sembianze umane, i corpi dei buddha sono in realtà a loro volta simboli, tanto fonte di ispirazione morale che sostegno alla contemplazione. L’arte del vajrayana (il tantrismo buddhistico indo-tibetano) assume pertanto una valenza rituale, esprimendosi come liturgia di trasfigurazione dell’uomo nel divino. Agli effetti della pratica liturgico-iniziatica è poi necessario avere una chiara cognizione di sé stessi quale divinità ed assumere il corrispondente ‘orgoglio divino’ (devamana). In tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale, si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti.

Nel linguaggio che si sta formando all’interno del Buddhadharma nella sua diffusione oramai globale vengono poi distinti il concetto di rinascita da quello di reincarnazione. Per rinascita si dovrebbe intendere il divenire inconsapevole (bhavati) mosso coattivamente dal karma, ovvero dagli effetti delle azioni compiute vita dopo vita. La rinascita è il fenomeno che riguarda la maggioranza degli esseri che sperimentano il samsara, il ciclo delle rinascite connotate dalla sofferenza; la reincarnazione riguarderebbe invece quei pochissimi che avendo stabilito un controllo eccezionale sul proprio continuum mentale riescono a veicolare consapevolmente questo flusso di coscienza in continua modificazione. Solitamente si tratta di maestri (guru, in tibetano tönpa o lama) e ciò implica che intorno a essi vi siano dei discepoli. Sentendo approssimarsi la fine del corpo fisico, il guru – mosso da compassione verso gli allievi che ancora necessitano di guida spirituale – può allora scegliere di chiamare intorno a sé la cerchia dei propri intimi per dare loro indicazioni più o meno precise in merito al luogo e al tempo della successiva reincarnazione per farsi rintracciare nel nuovo corpo al termine d’una complessa procedura di selezione che prevede tanto il riconoscimento di oggetti posseduti dalla passata incarnazione, tanto l’uso della funzione oracolare. Il caso di reincarnazione più noto in “occidente” è sicuramente Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, il quale è appunto il quattordicesimo di una serie di maestri reincarnati che oramai da sei secoli giunge fino all’epoca contemporanea. Oltre al Dalai Lama la tradizione tibetana annovera anche altri adepti reincarnati (in tibetano tülku) appartenenti ai vari ‘lignaggi di trasmissione spirituale’ (sampradaya) per i quali si rinfrange, come in un meraviglioso diamante, la dottrina del Buddha trapiantata sul tetto del mondo.

Si è avanzata spesso in occidente la tesi dell’impossibilità a spiegare razionalmente quello che per alcune tradizioni spirituali è il fatto, puro e semplice, della rinascita. Il dato ritenuto fondamentale è che la causa sostanziale di una mente può essere soltanto un fenomeno caratterizzato da tutte le proprietà della consapevolezza, ovvero un’altra mente omologa esistente nel momento immediatamente anteriore. Si torni allora fino al concepimento: la cellula paterna e la cellula materna (causa sostanziale del corpo) da una parte e, dall’altra, la coscienza, provvista di funzioni eteronome relativamente a qualsivoglia causa materiale, irriducibile rispetto alle proposizioni fisiche. Nelle religioni teistiche, ovvero in quelle tradizioni spirituali che ammettono un dio creatore, a questo punto si parla di teleologia verticale, volendo con ciò intendere che all’atto del concepimento la causa sostanziale corporea diventa il vaso, o il sostegno, adatto per poter accogliere l’anima personale (o il jiva, nel caso che le scuole teistiche siano hindu) quale particola luminosa, sorta di frammento di divinità direttamente, espressamente e gratuitamente creata a immagine e somiglianza del Dio. La risposta delle tradizioni spirituali che non implicano necessariamente la concezione teistica, tra le quali va annoverato appunto il Buddhadharma, è che questo elemento chiaro e conoscente, questa specifica consapevolezza, lungi dall’esser stata creata da un agente esterno, deriva da un flusso precedente di momenti di coscienza. Il processo si svolge, secondo una visione del mondo utilizzata più come uno strumento di indagine che come un dogma, all’interno dell’esistenza tutta (bhava) che viene distinta in tre sfere: la sfera del desiderio (kamalokadhatu), la sfera della forma (rupalokadhatu) e la sfera del senza forma (arupalokadhatu). Questi tre ambiti, formanti il trimundio (triloka), sono in realtà tra loro interconnessi in quanto soggiacenti alle stesse leggi della causa e dell’effetto, non essendo mai possibile conseguire al loro interno l’indefettibile possesso del sommo bene, in questo contesto il nirvana. Tutti gli esseri impermanenti che sperimentano l’esistenza condizionata si ritrovano dunque in una di queste tre sfere trapassandovi incessantemente, vita dopo vita, e questo continuo trapasso da una sfera all’altra spiegherebbe tra l’altro il ricambio nel numero degli esseri senzienti presenti in questo mondo. La maggior parte degli esseri trasmigratori non è ritenuta essere ancora in possesso di un tale grado di maturazione spirituale da potere utilizzare il processo della morte per identificarsi con shunyata, il modo ultimo d’essere dei fenomeni. Tra le fasi del morire e le fasi della rinascita la concezione del vajrayana (il veicolo esoterico, liturgico ed iniziatico del Buddhismo mahayana) pone una condizione esistenziale intermedia, detta in sanscrito antarabhava e in tibetano bardo. Si tratta di uno stato in cui la consapevolezza utilizza un corpo estremamente sottile, detto corpo di bardo, quale sorta di vettore – composto di materie estremamente rarefatte – per spostarsi da un piano all’altro del trichiliocosmo (trisahasralokadhatu) in attesa che maturino le condizioni circostanziali più adatte alla maturazione d’un determinato esito karmico. Le caratteristiche dello stato intermedio, dall’inizio del processo del morire fino alla descrizione analitica delle modalità del concepimento, hanno nella letteratura religiosa tibetana ampio spazio. Abbastanza noto in occidente è al proposito il cosiddetto Libro tibetano dei morti, titolo enunciato da W.Y. Evans Wents, curatore nel 1927 della prima edizione europea, sulla falsariga del solo apparentemente analogo Libro egiziano dei morti. Si tratta in realtà di una serie di testi aventi per argomento le istruzioni che vanno a completare i rituali da eseguire, o fare eseguire, in occasione della morte di una persona: spesso l’officiante, tanto monaco che laico, sussurra all’orecchio del morente o del defunto i consigli che serviranno a risvegliare nella coscienza, non ancora completamente dipartita dal corpo anche oltre la sintomatologia clinica, il ricordo degli insegnamenti spirituali ricevuti in vita; per questo motivo tali sussidi di accompagnamento del morente vengono definiti con il termine collettivo di Bardotodol, ovvero di Liberazione attraverso l’ascolto durante lo stato intermedio. Dallo studio di questa letteratura, si evince una anamnesi estremamente acuta che analizza ogni più minimo fenomeno relativo alla morte e ai segni che la morte annunciano o accompagnano.

Tutto il processo dell’estinzione dovrebbe essere sperimentato dall’adepto tantrico (sadhaka) nel corso delle sessioni formali della propria meditazione quotidiana, costituendone parte integrante e fondamentale. Come è facile valutare, solamente una personalità estremamente matura può sostenere l’impatto psichico di esporsi a questa disciplina senza correre la possibilità del rischio di procurarsi scompensi caratteriali. Ma d’altro canto, solo chi ha iniziato a padroneggiare i processi psichici sottili può sperimentare quelle inquietanti sensazioni e utilizzare le corrispondenti visioni per accelerare la propria teosi (θέωσις), la trasmutazione da essere ordinario in una divinità che ha permeato d’estasi spirituale la natura degli elementi materiali del proprio corpo; ridestandosi in una comprensione che abbraccia tutto l’universo, il sadhaka apprezzerà ogni istante come facente parte di una immensa configurazione di energia, un campo meraviglioso vibrante in forza dell’incontro tra il principio beatifico e la natura, pervaso da un’incessante estasi in cui ogni conflitto dualistico è stato risolto, per sempre. Arrischiarsi lungo il cammino per giungere allo scopo di cui si è goffamente tentato di dare ora descrizione è tanto giusto e opportuno quanto il porre la propria piena fiducia nelle risorse dell’umanità è un atteggiamento ben più solido di qualsiasi ristretta visione piattamente utilitaristica dell’esistenza. La generazione contemporanea che fino a qualche anno fa, secondo la gran parte degli studiosi della filosofia della religione, doveva rivelarsi essere la più refrattaria alle istanze irrazionalistiche sta invece rischiando, vuoi per impreparazione esistenziale vuoi per incapacità speculativa, addirittura il fondamentalismo e/o l’integralismo religioso. Vien fatto però di notare che il Buddhadharma, caso veramente unico di religione α-teistica (assegnando ad ‘alpha’ senso prescissivo, dunque non di mera negazione) fa ricorso ad un metalinguaggio che costantemente allude alla necessità di trascendere qualsiasi tipo di condizionamento, anche religioso. Il dharma altro non sarebbe che la ‘zattera’ (metafora evocata già nel Canone buddhistico) che risulta utile finché non si è traversato un guado, ma che si dimostrerebbe un peso qualora la si volesse continuare a trascinare portandosela sulle spalle una volta guadagnata la terraferma. In maniera analoga, le opere di pietà prescritte ad un livello principiale vengono nei fatti superate da una prassi psico-sperimentale che può, in determinate condizioni, addirittura trascendere la morale convenzionale.

Anche la venerazione al Buddha, comprese le raffigurazioni che lo rappresentano nell’arte, rientrerebbe pertanto nelle upaya, le ‘strumentalità intelligenti’ che lo spirito altruistico del risveglio mette in atto, alla stregua di santi espedienti, per urgere con ogni mezzo gli uomini alla salvezza.
In sintesi estrema, tornando dappresso al tema principale, l’arte sacra tibetana imprime dunque nell’immagine una vigorosa valenza mistica, evocata da un contemplativo per essere efficacemente trasmessa – con il minor numero di varianti possibili – ad un’altra mente contemplante. Quest’arte assume pertanto una valenza rituale, esprimendosi come liturgia di trasfigurazione dell’uomo nel divino.

Massimiliano A. Polichetti