Prolusione di Massimiliano A. Polichetti a

L’avventura della mente: il ben fatto, il bello e l’illustre

Iniziativa organizzata dal Liceo Classico Statale “Francesco Vivona”
in collaborazione con il Museo delle Civiltà

Museo delle Civiltà
Sala Conferenze “Filippo M. Gambari”
Palazzo delle Scienze
25 maggio 2022, ore 9,30 – 13,00

Cenni sul ruolo non marginale dell’esperienza estetica nelle tradizioni sapienziali

L’elaborazione nella mente umana di quella veramente enorme massa di dati riguardanti la realtà non avviene, come per i computer, tramite mere combinazioni di opposti binari – acceso/spento, si/no, uno/zero, ecc. – ma si basa piuttosto su di una ‘logica sfuocata’ (fuzzy logic), così definita a fronte della impossibilità di potere dare, attraverso un qualsiasi linguaggio, descrizioni puntualmente esatte di un fenomeno al crescere della sua complessità in sé stesso o in relazione a realtà d’ordine superiore.

La coscienza simbolica, ciò con cui si cerca di interpretare il simbolo, proprio quella è il ‘simbolo’, letteralmente ‘ciò che unisce’; la mente, secondo la calzante definizione di Gregory Bateson (1904–1980), non sarebbe infatti altro che “la struttura che connette” (v. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano 1977 e Mente e natura – Un’unità necessaria, Milano 1984, passim). Il simbolo è pertanto ciò che mantiene in tensione la relazione tra significante e significato.

L’applicazione pratica di un sistema di interpretazione simbolica, cioè la scelta di un processo di decodifica del reale fra i tanti disponibili, è in relazione ad opzioni fondamentali – metafisiche, logiche, etiche – che possono storicamente mutare.

Tutte le grandi tradizioni spirituali concordano nell’attribuire all’essere umano il posto più alto all’interno della natura, almeno in termini di potenzialità che attendono di essere espresse. Questo riconoscimento all’uomo di una particolare dignità lo si deve sicuramente anche alla singolare abilità, tipicamente umana, di rendersi intelligibile, di saper comunicare in modo vasto ed articolato. Le stesse religioni forniscono – in presenza di atti rituali e presupposti etici – narrazioni del senso ultimo e visioni del mondo espresse attraverso simboli e metafore alludenti, anche e soprattutto, a percorsi di immedesimazione con il divino. L’atto noetico viene concepito come una sfaccettata matrice di eventi tra loro in articolata relazione di funzione e di significato. Alcuni eventi interiori all’uomo si rivelano in effetti essere prodotti dalla materia, cioè dal cervello, ma all’estremo opposto di questo variegato spettro altri fenomeni vengono al contrario dimostrati essere in possesso di caratteristiche non direttamente riconducibili al corpo in termini di relazione causale. In un tale senso viene affermata la trascendenza della componente spirituale rispetto alla parte materiale dell’uomo.

Questa posizione spiritualistica dunque assegna – e in più di una tradizione – un ruolo non marginale all’esperienza estetica. È attraverso i canoni, gli stilemi, le pose, gli atteggiamenti codificati dalla tradizione e tramandati dalle scuole che l’esecutore potrà legittimamente rappresentare il divino dinanzi ad un pubblico che attribuisce e attinge valori all’evento con l’assistervi.

L’interpretazione soggettiva della sacralità, mai pienamente sovrapponibile ad un preciso linguaggio istituzionalizzato, difficilmente potrà affievolire la carica evocatrice dell’immagine per mezzo della quale viene espresso il divino. Si vuol qui proporre come le rappresentazioni dell’arte sacra tradizionalmente intesa non esauriscano la loro funzione a causa delle varie letture – necessariamente diverse pur se informate da un identico codice interpretativo –, ma al contrario, attraverso l’utilizzazione di supporti per la consapevolezza analitica, implementino le valenze emozionali ed estetiche, quasi fossero una sorta di accumulatori semantici.

L’arte sacra costituisce pertanto un ponte unico, un legame essenziale tra ciò che ‘sembra essere’ e ciò che ‘veramente è’. Non esiste forse una sfida maggiore alla coscienza dell’uomo comune il cui ego, aggrappato alla sua limitata percezione della realtà, inevitabilmente si allarma di fronte ad un avversario tanto impietoso quanto la percezione del modo reale d’esistenza dei fenomeni. Tale modo d’essere definitivo, ultimo, si pone infatti, nell’arte come nella riflessione filosofica, quale sfida costante ad ogni tentativo di concettualizzare, classificare, ridurre il mistero dell’essere avvilendolo in schemi di riferimento interpretativi già noti, limitati, appunto. Le raffigurazioni dell’arte sacra senza posa trasmettono invece all’uomo l’inquietante messaggio della possibilità infinita: attraverso la loro radiante presenza dischiudono alla coscienza il sentimento potente della capacità di trascendere ogni limite.

La coscienza leggerà le forme del sacro senza mai poterne esaurire le modalità espressive, né la propria interpretazione di quelle forme potrà tantomeno esaurirne i contenuti metafisici, proprio come l’esecuzione di uno spartito musicale non porta alla disgregazione del codice di convenzione segnica, ma al contrario al perpetuarsi nel tempo d’una determinata melodia. Un linguaggio così articolato avrà fra gli altri lo scopo di indurre incessantemente un individuo ordinario a riflettere su modalità sempre meno evidenti dell’essere, costringendolo così a vedere ciò che egli normalmente si rifiuta di voler vedere. Egli potrà momentaneamente interrompere il dialogo, ma questo scomodo resto della sua natura profonda non si dimenticherà mai di lui, costringendolo a riannodare questa inquietante relazione con la propria essenza metatemporale che lo urge a liberarsi da ciò da cui altrimenti non sarebbe mai disposto a volersi separare, in ultima analisi, dalla propria allucinata visione del mondo fenomenico.

«L’opera d’arte non ha propriamente significato ma potere.
Il suo presunto significato è la forma storica
che il suo potere ha assunto sullo spettatore del momento.»

N.G. Dávila, In margine a un testo implicito