Intervista a Giacomo Mutti

[a cura di Giovanna Iacono]

Abbiamo incontrato l’architetto Giacomo Mutti che si trova in questi giorni a Roma per formalizzare giuridicamente la donazione della sua collezione di arte indiana al Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘Giuseppe Tucci’. L’amichevole chiacchierata si è presto trasformata in una vera e propria intervista.

D.: Spesso l’attività del collezionista è il risultato di un percorso di studi o di una professione che porta ad entrare in relazione con luoghi e culture lontane; per lei, che è architetto e dalla nascita risiede a Brescia, è stato invece un incontro fortuito a suscitare il suo interesse, forse all’inizio solo di viaggiatore, per l’India.

R.: Infatti il mio amore per l’India è nato dall’incontro con due giovani che facevano la spola fra Italia e India importando artigianato, gioielli popolari e vecchie cose spesso interessanti e che mi proposero di compiere un viaggio con loro. Questo quando ero già un affermato professionista. Accettai l’invito, che veniva a concretizzare un mio desiderio nascosto, e così cominciai a conoscere l’India e la sua arte. Per capirla mi ci vollero molti altri viaggi.

D.: In effetti l’entità della sua collezione e la provenienza degli oggetti ci dice che è stato molte volte nel subcontinente, girandolo in lungo e in largo.

R.: Ho frequentato l’India per più di vent’anni, con permanenze di uno o due mesi ogni anno. I miei viaggi hanno interessato l’intero subcontinente indiano, per cui è più semplice elencare le zone dove non sono stato. E che sono sostanzialmente le due estremità dell’India settentrionale, il Jammu – Kashmir ad ovest e ad est praticamente tutta la valle del Brahmaputra – Assam, Bhutan, Arunachal Pradesh ed anche il Bangladesh.

D.: Come il viaggiatore Mutti diventa il collezionista Mutti?

R.: È stato un lungo processo, più culturale che estetico, perché la cultura di carattere religioso invade e permea ogni espressione artistica e, quindi, se non si conosce e capisce quella anche l’arte è poco comprensibile. Non è possibile disgiungere l’una cosa dall’altra. Dopo il primo impatto, mi è stato necessario approfondire la conoscenza della storia e della vita dell’India attraverso letture, visite a Musei ed a botteghe di antiquari, incontri con studiosi di questa civiltà la cui antichità risale a vari millenni prima di Cristo, secondo gli ultimi ritrovamenti nella Valle dell’Indo. Ma, pur accontentandoci degli ultimi due millenni, la vastità dello scibile e dell’attività artistica dell’India è tale che, dopo aver superato il primo momento di timore reverenziale, ti prende e non ti abbandona più. La mia conoscenza dell’India è stata conquistata per così dire ‘sul campo’.

D.: Una parte della sua collezione, attraverso raffinati fogli di manoscritti tratti dal Kalpasutra (l’ottavo capitolo del famoso testo sacro Dasashrutakanda), complesse costruzioni cosmogoniche, deliziose raffigurazioni per la devozione popolare, ci offre una bella panoramica della religione e della cultura jaina, poco conosciute al grande pubblico e comunque generalmente ‘costrette’ tra Buddhismo e Induismo, ma che invece hanno rivestito un ruolo importante nella costruzione del pensiero e della storia dell’India moderna. Sembra che lei sia rimasto affascinato dal Jainismo.

R.: Il Jainismo è affascinante per due ragioni. Il pensiero jaina è rimasto oscurato dal contemporaneo Buddhismo che pure ha attinto parecchio dalle sue teorie: ma mentre il Buddhismo ha avuto una diffusione oltre i confini indiani, il Jainismo è nato, vissuto e ancora vive in modo esclusivo in India. Inoltre la religione jaina è misteriosa. Al di là dei pochi limpidi concetti fondamentali come la non violenza, il rispetto incondizionato della natura e degli esseri che la compongono, l’assoluta pulizia morale nei comportamenti e la misericordia verso i meno fortunati, essa è in realtà molto complicata, astratta e fantasmagorica, spesso assurda ma incantevole. Bisogna poi dire che molti manoscritti miniati, sia classici che popolari, della ricchissima produzione jaina attendono ancora di essere tradotti.

D.: L’India è un tale intreccio di religioni, culture, etnie e lingue differenti che risulta praticamente impossibile documentarne tutti i segmenti: eppure lei architetto, che accosta temi religiosi ad argomenti profani, ‘canoniche’ divinità hindu a dei e dee locali di villaggio, arte di corte a arte ‘popolare’ , riesce a rimandare un’idea della complessità di quel territorio al di là di facili banalizzazioni. A cosa si deve la fisionomia così variegata della sua collezione?

R.: Principalmente alla mia curiosità, che non riguarda tanto gli uomini, quanto quello che gli uomini hanno saputo creare. Il che non vale solo per le opere d’arte; bisogna saper guardare alla produzione artigianale con lo stesso amore con cui è stata modellata. L’arte del popolo, che risponde ai bisogni elementari ed alle necessità dell’uso sia quotidiano che rituale, traduce in questi manufatti anche la libera, fantasiosa interpretazione di concetti intellettuali, rivestiti di una bellezza spontanea ed inattesa. Tutto ciò l’ho trovato in ogni parte dell’India.

D.: Penso che un collezionista alla fine viva la propria collezione un po’ come la sua creatura. Come è arrivato alla decisione di donarla al Museo Nazionale d’Arte Orientale?

R.: Qui bisogna chiarire un aspetto della mia natura. Non ho mai pensato di possedere, per ricavarne un mio esclusivo piacere personale, ciò di cui mi sono appropriato. Eppure probabilmente commettevo un furto o quantomeno un ‘peccato’ nei confronti del paese cui questi oggetti appartenevano e che in qualche modo comunque risarcivo con il mio denaro. Credo che per il vero collezionista l’acquisizione di elementi di un paese o di una civiltà diversa sia un tramite per la conoscenza viva di quella civiltà. Ora, a che cosa serve questa conoscenza se non viene trasmessa agli altri, soprattutto a chi sente la mia stessa curiosità? Il suo destino è quello di approdare in un museo. E quale museo più adatto del Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma? Un ambiente cioè in grado di tradurre, completare e valorizzare questa conoscenza.