I presupposti logici della rinascita
Conferenza in occasione del ciclo Giovedì al Museo
Sala Conferenze “F.M. Gambari” – Massimiliano A. Polichetti
Nel linguaggio che si sta formando all’interno del Buddhismo nella sua diffusione globale, vengono distinti il concetto di ‘rinascita’ da quello di ‘reincarnazione’. Per rinascita si dovrebbe intendere il divenire inconsapevole (in sanscrito bhavati) mosso coattivamente dal karma, ovvero dalle azioni compiute, vita dopo vita, dal corpo, dalla parola e dalla mente. La rinascita è, secondo la Dottrina del Risveglio (il buddhadharma), il fenomeno che riguarda la maggioranza degli esseri che sperimentano il samsara, il ciclo delle rinascite contaminate dalla sofferenza; la reincarnazione riguarderebbe invece quei pochissimi che avendo stabilito un controllo eccezionale sul proprio continuum mentale riescono a veicolare consapevolmente questo flusso di coscienza in continua modificazione. Solitamente si tratta dei Maestri della Dottrina; tale definizione implica che intorno a essi vi siano dei discepoli. Sentendo approssimarsi la fine del corpo fisico il Maestro, mosso da compassione verso gli esseri che ancora necessitano di guida spirituale, può allora scegliere di chiamare intorno a sé la cerchia dei propri intimi per dare loro indicazioni più o meno precise in merito al luogo e al tempo della successiva reincarnazione. Solo in questi limitatissimi casi è perciò lecito parlare di reincarnazione.
Si è avanzata spesso la tesi dell’impossibilità a spiegare razionalmente quello che per alcune tradizioni spirituali è il fatto, puro e semplice, della rinascita. Il dato da cui partire è che la causa sostanziale di una mente può essere soltanto un fenomeno caratterizzato da tutte le proprietà della consapevolezza, ovvero un’altra mente omologa esistente nel momento immediatamente anteriore. Si torni allora al concepimento: la cellula paterna e la cellula materna (la causa sostanziale del corpo) da una parte e, dall’altra, la coscienza, provvista di funzioni eteronome relativamente a qualsivoglia causa materiale, irriducibile rispetto alle proposizioni fisiche. Nelle religioni teistiche si parla a questo punto di teleologia verticale, volendo con ciò intendere che all’atto del concepimento la causa sostanziale corporea diventa il vaso, o il sostegno, adatto per poter accogliere l’anima personale (o il jiva, nel caso che le scuole teistiche siano hindu) quale particola luminosa, sorta di frammento di divinità direttamente, espressamente e gratuitamente creata a immagine e somiglianza del dio. La risposta delle tradizioni spirituali che non implicano necessariamente la concezione teistica, tra le quali va annoverato il buddhadharma, è che questo elemento chiaro e conoscente, questa specifica consapevolezza, lungi dall’esser stata creata da un agente esterno, deriva da un flusso precedente di momenti di coscienza.