Introduzione all’Arte tibetana e nepalese attraverso le opere conservate nel Museo delle Civiltà – Arte Orientale “Giuseppe Tucci”
Alcuni materiali relativi alla omonima Conferenza in collaborazione con ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente tenutasi il 16 dicembre 2021 in presenza e in streaming (https://www.youtube.com/watch?v=5OhLX9omttI) nella Sala Conferenze “F.M. Gambari” del Museo delle Civiltà
I Settori Tibet e Nepal del MuCiv-MAOr sono strettamente connessi alla storia della ricerca scientifica italiana in Asia, nonché alla vita e all’opera di Giuseppe Tucci (1894-1984), il sommo orientalista riconosciuto a livello internazionale essere il padre della tibetologia.
Le Collezioni di questi Settori sono prevalentemente costituite da dipinti arrotolabili su stoffa, statue in lega metallica, cretulae votive, affreschi, suppellettili e oggetti rituali, oltre a gioielli e a parti di mobili. Fra le tipologie ora enunciate, i dipinti su stoffa (Thang Ka) e le cretulae (Sa Tsha Tsha) fanno di questa una tra le più importanti collezioni d’arte tibetana del mondo, sia per la qualità della realizzazione formale che per la quantità di un repertorio estremamente articolato. La produzione tibetana (come del resto tutta l’arte sacra) rimanda invariabilmente ad una ragione che la determina in qualunque medium concreto possa essere espressa. Il dipinto su stoffa, la pittura murale, la statua in legno o in lega metallica, ovvero i veicoli formali predominanti accanto alle impronte sigillari, alle miniature e a particolari tipologie ed elementi dell’architettura, vengono infatti realizzati quali sostegni sensibili alla pratica spirituale, quest’ultima informata dai principi che regolano la ritualistica del vajrayana (il ‘veicolo della folgore adamantina’), la tradizione esoterica del Buddhismo mahayana, i cui complessi codici simbolici rimangono, in assenza di una specifica iniziazione a quelle liturgie, di difficile accesso e comprensione per gli stessi tibetani.
Le Collezioni sono state integrate dall’importantissima donazione allo Stato di Francesca Bonardi-Tucci, perfezionatasi nel 2005, che ha contribuito ad arricchire anche questa parte del Museo in modo estremamente significativo tramite opere d’arte himalayana d’eccezionale bellezza.
Arte spirituale
Le immagini antropomorfe dei buddha e dei bodhisattva sono iconogrammi, aggregati di potenti simbologie organizzate secondo schemi prefissati dalla letteratura canonica. Sia pure in sembianze umane, i corpi dei buddha sono in realtà a loro volta simboli, tanto fonte di ispirazione morale che sostegno alla contemplazione. L’arte del vajrayana (il ‘veicolo della folgore adamantina’) indo-tibetano assume pertanto una valenza rituale, esprimendosi come liturgia di trasfigurazione dell’uomo nel divino.
I portentosi esseri rappresentati in quest’arte, dotati come sono d’una forma libera di esprimersi in un campo d’azione senza confini, provocano trasformazioni profonde nella coscienza di chi vi si accosta. Di fatto, in quanto le energie latenti stimolate dalle pratiche del vajrayana sono considerate estremamente potenti, le meditazioni formali connesse alle divinità sono accessibili solo a studenti qualificati e responsabili sotto la guida protettiva di un maestro.
Le raffigurazioni artistiche degli dei del vajrayana, esistendo per poter entrare in contatto con la consapevolezza ordinaria, assecondano tale umano percepire mostrandosi multiple ai molteplici interlocutori. Un linguaggio che si articoli in un tal modo ha fra gli altri lo scopo di indurre un individuo ordinario a considerare categorie sempre meno evidenti della realtà fenomenica, obbligando alla percezione di ciò che normalmente ci si rifiuta di vedere. Gradualmente il devoto progredisce attraverso vari livelli di consapevolezza alla fine dei quali trascende la necessità di un supporto materiale sensibile.
L’arte sacra indo-tibetana esprime, in sintesi, il tentativo di imprimere nell’immagine una vigorosa valenza spirituale, evocata da un meditatore per potere essere efficacemente trasmessa, con il minor numero possibile di varianti iconografiche, ad un altro meditatore, utilizzando complesse simbologie, strutture iconogrammetriche e codici iconologici, al fine d’emanciparsi dal mondo delle rinascite inconsapevoli, o samsara. Il ‘germe del buddha’ (tathagatagarbha) presente nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo di visualizzazione e contemplazione di questi mistici diagrammi.
Le opere
Coppia di divinità danzanti; bronzo, h. cm. 30, Tibet o Nepal, sec. XVIII MuCiv ex inv. MNAO 30496 (dono Francesca Bonardi).
Allacciata in un dinamico passo di danza che prelude alla ierogamia, ma già interrelata alla sua compagna nel significato, la componente maschile della coppia reca nella mano sinistra il doppio tamburello a clessidra (damaru) il cui suono urge gli esseri alla salvezza, mentre la dea porge nella mano destra la raffigurazione di un’essenza botanica che potrebbe alludere tanto al bocciolo di loto – promessa d’una compiuta e trascendente purezza – che al gelsomino, il cui aroma fa presentire alla coscienza ordinaria le sottili fragranze prodotte nel proprio corpo dagli adepti dello yoga tantrico.
Eccellente sintesi dell’ambito culturale di cui è espressione artistica, quest’opera era stata scelta quale immagine esemplare del Museo, ricorrente anche sullo stendardo che accoglieva i visitatori all’ingresso di Palazzo Brancaccio.
Alla concezione di universo sessuato da essa promanante si affianca la pari dignità dei due generi impegnati nella danza cosmica: la parte femminile dell’universale divino è infatti qui rappresentata avere pari dimensione, dunque importanza, di quella maschile; le due componenti presentano inoltre, ad ulteriore sottolineatura della loro parità, caratteri sessuali poco differenziati, così come sono rappresentate indossare identici abbigliamento e ornamenti.
Il bodhisattva femminile Shyama Tara (Tara ‘verde’); Tibet o Nepal, sec. XVII, lega metallica dorata e pietre, h. cm 35, MuCiv ex inv. MNAO 23649
La divinità è raffigurata seduta con la gamba sinistra piegata verso l’interno e la gamba destra leggermente distesa verso l’esterno del corpo. La mano destra è poggiata, con il palmo rivolto verso l’esterno e le dita verso il basso (dana mudra), sul ginocchio destro che è discosto dalla base; la mano sinistra è sollevata all’altezza del cuore con il palmo rivolto verso l’esterno e con il pollice congiunto all’anulare nel gesto del triplice gioiello (triratna mudra).
Il nome Tara ha essenzialmente due connotazioni. Innanzitutto può significare stella; come dhruvatara (stella polare) ha il ruolo di guida per i marinai, i navigatori ed i viaggiatori nelle foreste. Il secondo significato del lemma è ‘salvatrice’, derivante dalla forma causativa della radice sanscrita tr (portare attraverso, aiutare nelle difficoltà, salvare). I due significati non si escludono a vicenda, al contrario concorrono a definire il carattere protettivo di questa divinità, che può essere considerata come dea madre nel Buddhismo indo-tibetano.
Tara è inoltre riconosciuta come emanazione della karuna (la compassione empatica) del bodhisattva Avalokiteshvara. Secondo la tradizione concernente le origini di Tara, Avalokiteshvara, turbato per la sofferenza degli esseri, lasciò cadere dal volto una lacrima che si trasformò in un lago; dal lago sorse un loto che, una volta aperto, rivelò Tara.
In origine dea protettrice, Tara acquistò in seguito le valenze di jnana e prajna, diventando colei che salva gli esseri non solo dalle acque degli oceani fisici, ma anche dalla sofferenza ciclica dell’oceano delle esistenze (bhavasagara). Simboleggiando le qualità psichiche della conoscenza e della saggezza, Tara salverà gli esseri dal pericolo dell’ignoranza, conducendoli infine sul sentiero del risveglio (bodhi).
Tara diviene anche il potere dei buddha, la prajna del tathagata Amoghasiddhi e, in conclusione, l’energia femminile primordiale e la saggezza, madre di tutti i vittoriosi (jina).
In quanto paredra del tathagata Amoghasiddhi, Tara si identifica infine con Prajnaparamita, personificazione della saggezza trascendente, madre spirituale di tutti i tathagata.
Il lokapala (‘guardiano del mondo’) Kubera; Tibet orientale, sec. XVIII, lega metallica dorata, cm 15, MuCiv ex inv. MNAO 16861.
Kubera (chiamato anche Jambhala o Vaishravana), uno dei quattro guardiani protettori del mondo (lokapala) e più precisamente il guardiano detto dei tesori del nord, venerato inoltre come uno degli otto principali guardiani del dharma (dharmapala), è qui raffigurato su di un leone seduto verso destra posto a sua volta su di una base di loto con i petali rivolti verso il basso.
Di fattezze massicce, il protettore indossa una corazza dalle maglie finemente incise, con decorazione teriomorfa sul ventre e pesanti stivali.
La mano sinistra sorregge all’altezza del fianco la magica mangusta che eietta gemme dalle fauci aperte quale simbolo di prosperità, la destra è sollevata all’altezza della spalla corrispondente, con il palmo volto verso l’esterno.
Il capo è incoronato da una tiara e le spalle sono incorniciate dalla rappresentazione dello svolazzo di un drappo mosso dal vento.
Al piede della base è presente l’iscrizione in caratteri cinesi che ne consente la datazione all’epoca del regno dell’imperatore Qianlong della dinastia Qing (XVIII secolo).