[John Claude White (1853–1918): Lhasa Panorama,1904; The British Library]
«Qui nel corpo si trovano la Ganga
e la Yamuna, Prayaga e Benares,
la luna ed il sole,
tutti i luoghi sacri.»
(Saraha, Dohakosha, VIII sec. E.C.)
Ovunque nell’Asia si sia diffuso il messaggio del Buddha, in quei territori che hanno accolto la ‘legge’ (dharma) al punto da far diventare la dottrina buddhistica la religione di vasti strati della società, spiccano inconfondibili le forme di innumerevoli stupa. Dall’India all’Asia sud-orientale, dall’Asia Centrale al Gandhara, dalla Cina al Giappone, dal Tibet alla Mongolia, dall’Himalaya a Shri Lanka, i vari paesaggi sono caratterizzati dalla presenza del monumento sacro tipico dell’ideologia religiosa buddhistica.
Con il termine sanscrito stupa non si intende il ‘tempio’, ovvero un edificio sacro nel quale è possibile entrare per compiervi gli atti di culto, ma una struttura monumentale piena, dunque non penetrabile, con la quale il devoto entra in rapporto praticando intorno ad essa la circumdeambulazione in senso orario (pradakshina).
Vera e propria sintesi dell’architettura simbolica asiatica, lo stupa esprime più significati allo stesso tempo, rappresentando in modo esemplare l’adattabilità del simbolo religioso all’espressione simultanea di contenuti molteplici. Tali contenuti, fondati sul concetto di identità tra microcosmo individuo e macrocosmo universo, possono poi essere interpretati (da parte dei differenti fruitori) a seconda delle capacità di valutazione del medesimo simbolo. Allo stupa ci si può infatti utilmente riferire come alla versione tridimensionale del mandala. Questo sofisticato diagramma di supporto alla contemplazione, definito da Giuseppe Tucci ‘psicocosmogramma’, si avvale, tra i tanti codici in esso sincronicamente presenti, del simbolismo direzionale ripreso dall’architettura sacra di edifici.
[Vajradhatumandala (?) dipinto su stoffa (thang ka) Tibet (commitenza newari) 1875 E.C., MuCiv-MAOr inv. 951/784]
Nell’architettura più propriamente templare, la segnalazione dei quattro punti cardinali corrisponde alla rappresentazione schematica dell’universo suddiviso nei suoi quadranti spaziali. Il mandala, come cosmogramma, è anche una descrizione cifrata del mondo visibile, laddove vi sono indicate le quattro direzioni dello spazio, strutturalmente risolte nell’architettura sia dalla pianta cruciforme che dalla pianta a quinconce, qualificate da un centro. Tale centro, asse ideale dell’universo corrisponde, nel tempio a pianta mandalica, al garbhagriha (la ‘dimora dell’embrione’, il sancta sanctorum ove l’adepto invera la propria teosi).
Nel Buddhismo vajrayana indo-tibetano, la contemplazione del mandala viene inoltre considerata anche come una sorta di “pellegrinaggio sostitutivo” ai luoghi sacri della geografia esterna.
Fino all’occupazione cinese nessuno scavo archeologico poteva infine essere intrapreso in Tibet senza il rischio di sollevare il risentito sospetto della popolazione. Il territorio non poteva infatti essere profanato fin quando vigesse la protezione dei sa bdag, i ‘signori del suolo’, divinità ctonie cui si attribuiva la facoltà, se disturbate, di vendicarsi.
«Tutto questo processo naturalmente è dentro di noi
in una misteriosa presenza che si rivela abbacinante nella sua gloria agli occhi dell’iniziato;
in me stesso si compie l’eterna vicenda,
in me sono tutti i mondi, in me la gloria arcana
dei Buddha disposti per gradi nelle sfere del mio corpo che corrispondono misticamente ai vari momenti di quell’espandersi e riassorbirsi universale.»
(Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala)