Lingua agglutinante, monosillabica e tonale, il tibetano appartiene al gruppo definito tibeto-mongolo-birmano, e viene parlato nell’area propriamente tibetana, ma anche in Bhutan, in parte del Nepal e dell’India, oltre che naturalmente nelle comunità tibetane disperse oggi nell’esilio in varie parti del mondo. Ne esistono vari esiti dialettali, per cui la vicendevole comprensione della lingua parlata da parte di gruppi etnici tibetani appartenenti a diverse aree geografiche può risultare problematica, ma la lingua scritta – massime quella impiegata per la redazione di testi religiosi – rimane prevalentemente invariata.

Pur essendo un linguaggio che per via delle sue caratteristiche glottologico-semantiche si sarebbe prestato ad essere espresso anche tramite ideogrammi/pittogrammi, all’inizio del processo di inculturazione, vigendo il patrocinio del re Songtsen Gampo, gli intellettuali tibetani del sec. VII E.C., fra cui Thonmi Sambhota, si ispirarono ad una forma settentrionale della scrittura gupta, sistema che venne poi mantenuto ad ulteriore riprova degli strettissimi legami sempre intercorsi tra il Tibet e la civiltà indiana.

La scrittura tradizionalmente attribuita a Thonmi Sambhota si è poi evoluta dando esito ad alcune tipologie alfabetiche; sia pure tutte impiegate, tali tipologie nella pratica si riducono prevalentemente a tre: ucen (capitale, lett. ‘dal grande capo’) e ume (‘senza testa’), oltre a una forma quasi stenografica assimilabile al corsivo (ghyukyig). L’ucen è la scrittura più utilizzata per i testi a stampa, mentre l’ume, che pure è possibile talvolta vedere in testi stampati, è solitamente riservata alle stesure a mano[1].

L’apposizione di scritte, sia sul recto che sul verso dei dipinti su stoffa, fa parte integrante del processo di consacrazione della thangka. Pur non mancando iscrizioni apertamente didascaliche[2], dedicatorie o, più raramente, riportanti i nomi dell’esecutore e/o del committente (che in entrambi i casi corrispondono talvolta a un Lama d’alto lignaggio), anche in questo caso è prevalente in un tale contesto il riferimento all’ambito più specificatamente religioso, liturgico e sacrale. Tutti e tre i caratteri sopra citati – l’ucen, l’ume e il ghyukyig – vengono impiegati per queste operazioni, con una aderenza alla grammatica e soprattutto all’ortografia non sempre impeccabile. Sulle thangka sono pertanto vergate numerose tipologie di iscrizioni, apposte sia durante l’esecuzione dei dipinti che nei complessi rituali di consacrazione successivi; quelle prodotte in vista di quest’ultima occasione rimangono generalmente sempre visibili[3], sul recto o sul verso dei dipinti; le prime vengono invece occultate dalla stesura degli strati cromatici o, se apposte sui bordi non dipinti del supporto, dall’applicazione delle cornici.

L’apposizione di scritte, sia sul recto che sul verso dei dipinti su stoffa, fa quindi parte integrante del processo di consacrazione della thangka. L’invarianza più ricorrente è senz’altro costituita dall’uso di marcare con i ‘mantra germinali’ (bijamantra) om, ah e hum il retro delle divinità all’altezza del capo, della gola e del cuore, al fine di evocare le ‘tre porte’ (gosum) attraverso le quali la tradizione di riferimento vuole vengano espresse, nell’ordine e rispettivamente, le attività illuminate del corpo, della parola e della mente degli esseri ‘risvegliati’ (buddha)[4].

L’utilizzo della scrittura corsiva (ume) per i bijamantra appare degno di nota, perché i bijamantra apposti sul retro sono solitamente vergati con caratteri capitali (ucen). La presenza dei bijamantra al di sotto degli strati cromatici ne colloca, ovviamente, l’imposizione non durante la consacrazione della thangka, bensì in una fase precedente.

La produzione di una thangka avveniva sotto il controllo dei monaci che talvolta, a seconda del rango sacrale da attribuire all’immagine, potevano accompagnare l’esecuzione con preghiere e rituali; quanto evidenziato sembrerebbe individuare un determinato momento, al termine dell’esecuzione del disegno e quindi dell’impostazione complessiva dell’immagine da rappresentare, in cui l’apposizione dei bijamantra sui personaggi principali poteva coincidere con una sorta di imprimatur, dunque di ‘preconsacrazione’ (pur sempre propedeutica al rituale completo), in cui il dipinto non ancora colorato iniziava comunque ad assumere una frazione della sacralità di cui sarebbe stato successivamente pienamente investito.

 

[1] Le altre scritture, cui qui si accenna solo di sfuggita, sono varie forme di sigillare e di caratteri, giunti fino alla Cina e poi al Giappone per via della diffusione del Buddhismo vajrayana, desunti da altri alfabeti indiani.

[2] A commento d’una scena e/o finalizzate all’identificazione dei personaggi rappresentati (funzione talvolta non inequivoca); assai spesso sono anche presenti riferimenti all’ideologia pertinente, soprattutto attraverso la nota frase canonica sintetizzante l’attitudine gnostico-salvifica caratteristica del Buddhismo: om ye dharma hetu prabhava hetum tesham tathagato hyavadat tesham cha yo nirodha evam vadi mahashramanaye svaha (‘quanto ai fenomeni che sorgono da cause, il Buddha ha insegnato la loro origine così come la loro cessazione; tale è l’insegnamento del supremo asceta’).

[3] A meno che il retro del dipinto non venga intenzionalmente, come a volte accade, completamente rifoderato.

[4] Viene anche qui riconfermato lo stretto legame tra l’iconografia, utilizzata come supporto per i complessi processi di visualizzazione, e la liturgia, in quanto immaginare raggi luminosi che dalle ‘tre porte’ del maestro si propaghino verso le corrispondenti ‘porte’ dei discepoli fa parte dei rituali di iniziazione (abhisheka) attraverso i quali i Lama concedono il permesso formale di impegnarsi nel sentiero tantrico.