“Nel 1800, l’Africa interna è ancora in gran parte sconosciuta al resto del mondo. Un secolo dopo il continente è già sotto il dominio delle grandi potenze coloniali. In quell’arco di tempo esploratori, missionari e avventurieri si addentrano nelle regioni centrali, alla ricerca di fiumi, laghi, montagne. Scoprono piante e animali mai visti prima, redigono classificazioni, disegnano mappe. E stringono rapporti con gli africani… aprendo la strada all’imperialismo europeo” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon).

L’Africa è da sempre stata luogo di intensi traffici con popolazioni di altri continenti: alla preistoria risalgono le prime testimonianze su rapporti con Asia ed Europa. Nel Medioevo mercanti arabi attraversano dal nord al sud il Sahara per commerciare sale, tessuti e armi da scambiare con oro, avorio e schiavi del Sudan (in arabo “terra dei neri”). Gli Europei approdano lungo la costa occidentale, installandovi nel Quattrocento centri commerciali per lo scambio di prodotti e di schiavi in cambio di lavorati. Nel Cinquecento, ormai, l’intera costa del continente era stata riconosciuta, anche il lato orientale, dove già da anni i mercanti arabi svolgevano i loro traffici commerciali.

A lungo le conoscenze riguardo l’Africa sono state ristrette a poche aree costiere e alla regione secca, infatti le molti paludi lungo il litorale e le forti correnti dell’Atlantico rendono molto difficile approdare sul continente. Inoltre sia il clima umido e torrido che la fitta vegetazione hanno rallentato per secoli l’avanzata nelle regioni centrali dell’Africa. “È il regno della grande foresta equatoriale, dove gli alberi superano i sessanta metri d’altezza e rami, fogliame e liane formano un inestricabile intreccio in cui si può procedere solo a colpi di ascia e di machete” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, pp. 16-17). Ma non sono solo l’ambiente e il clima a fermare l’avanzata verso l’interno, anche le molte popolazioni, divise etnicamente, politicamente e linguisticamente, non hanno favorito la rapida scoperta del cuore dell’Africa. Intorno alla regione dei grandi laghi, ad esempio, si riscontra la presenza di regni forti e centralizzati, mentre in altre, come il bacino del Congo, vige una forte frammentazione etnica, tanto che molti esploratori hanno addotto quest’ultimo caso ad indice di primitivismo e arcaicità delle popolazioni africane. “A questi ostacoli si aggiunge un alone di mistero e di paura che avvolge sia i racconti locali sia quelli dei viaggiatori europei: racconti che evocano creature senza testa, esseri per metà uomini e per metà animali, pratiche orrende come l’antropofagia, e così via” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, pp. 17-18). Reali ostacoli e racconti immaginari hanno così fermato gli Europei che fino alla fine del Settecento non si sono avventurati nell’interno del continente. Anche a livello commerciale non si sente questo bisogno di occupare nuovi territori: la tratta degli schiavi, principale interesse economico, si attua già dal Cinquecento lungo vari tratti della costa e questo basta. Alla fine del ‘700 si contano circa 25000 Europei tutti insediati lungo il litorale.

Con la nascita dell’Illuminismo, della passione per le scoperte scientifiche e geografiche, cambiano anche le ambizioni delle singole nazioni che fino a quel momento hanno commerciato in Africa. L’Inghilterra può essere considerata pioniere di questa nuova smania di conoscenza. Infatti è nel secolo dei Lumi che molti avventurieri e intellettuali sono attratti dallo scoprire le molte lacune e i molti vuoti che le carte geografiche riportano. I cartografi spesso hanno sopperito alla mancanza di coordinate grazie all’immaginazione o alla supposizione: “i corsi d’acqua si snodano lungo percorsi inventati, il Nilo e il Niger si congiungono, mentre il Congo sembra un modesto fiume costiero!” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, p. 19). Ed è proprio nel 1788 che nasce l’African Association a Londra. Quest’associazione di studiosi ed esploratori ha lo scopo di porre rimedio alle molte lacune che esistono su più di un terzo del Continente nero. Oltre l’interesse geografico, a spingere questi intellettuali sono anche lo studio delle scienze naturali, e della letteratura etnografica, che in quel momento ha iniziato a muovere i primi passi. Forte è il pensiero illuminista che soggiace a questi interessi: il desiderio di conoscere il mondo per controllarlo e dominarlo a partire da una ragione umana e scientifica.

Insieme a queste istanze utilitaristiche, presto nascono anche motivazioni filantropiche a spingere verso la conoscenza degli altri popoli. Presto grazie alle varie scoperte nei più sperditi angoli del globo, in Europa inizia a circolare l’idea di un’armonia naturale e sociale che le popolazioni esotiche incarnerebbero. Il mito del “buon selvaggio”, lanciato da Rousseau, viene accolto molto favorevolmente in alcune élite di benpensanti europee, tanto che ci si inizia a mobilitare per contro la tratta degli schiavi. “Il dibattito su questa pratica, in uso ormai da secoli, non scaturisce solo da spinte umanitarie: la schiavitù frena l’emergere di un capitalismo industriale moderno, fondato sulla libertà della manodopera. La Gran Bretagna, in anticipo sui rivali europei, spera che l’eliminazione della schiavitù porti ad un indebolimento ulteriore delle economie antagoniste, che ancora ne dipendono. Protestando contro la legalità dell’abominevole traffico e reclamandone l’abolizione, influenti personaggi europei, sensibili sia alle questioni economiche sia a quelle ideologiche, cominciano a interessarsi più da vicino ai popoli dell’Africa” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, pp.20-21).

Nonostante questi philosophes le notizie riguardo i popoli africani continuano a scarseggiare e con il loro continui sforzi per promuovere la civilizzazione nei territori del continente, tengono in poco conti i caratteri peculiari delle società native. Quindi anche se spinti da motivazioni filantropiche, il loro scopo non è quello di valorizzare le culture originarie dell’Africa, ma di civilizzarle, di portare il progresso anche a queste popolazioni che in quanto esseri umani hanno pieno diritto di lasciare la loro arretratezza e raggiungere il livello tecnologico e morale della “civilissima” Europa. Uno dei più famosi esploratori, Livingstone, che non disprezza affatto i neri, scrive che il suo fine è di “aiutare i popoli arretrati che si trovano in Africa a prendere rango tra le grandi nazioni della Terra” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, p. 21).

Nello stesso tempo, ai primi dell’800, i missionari, che già nel Quattrocento cercarono di evangelizzare le popolazioni del Congo e dell’Angola con scarsissimi risultati e con la conseguente rinuncia, tornano in Africa con i loro propositi di diffondere la Buona Novella. Predicatori, volontari ed ecclesiastici conducono il proprio operato e grazie alle donazioni dei fedeli delle nazioni europee, le missioni proliferano all’interno del territorio africano. Nel 1840 due missionari tedeschi, Krapf e Rebmann, traducono la Bibbia in swahili. L’operato delle Missioni, pur essendo stanziale e spazialmente circoscritto, favorisce la “scoperta” dei territori più “nascosti” del continente nero. Le notizie e le descrizioni che questi “pionieri”, si rivelano utili per l’approfondimento e la conoscenza dei luoghi e delle società che li popolano.

Anche il commercio trova nuovi prodotti e intravede nuove possibilità economiche per i mercati europei. L’Europa che sta muoventi i suoi primi passi verso l’industrializzazione vede nei prodotti e nelle risorse naturali dell’Africa degli ottimi mezzi per la produzione. Le regioni interne, inoltre, offrono la possibilità di aprire un mercato per i manufatti europei. “Sulla scia dell’Inghilterra, l’intera Europa occidentale è divenuta il ‘laboratorio del mondo’; le fabbriche devono smaltire la produzione e ogni prospettiva di allargamento dei mercati è vista con favore. Identificare intere regioni, cartografarle, stringere rapporti con gli autoctoni diventano premesse indispensabili alla penetrazione commerciale. Alla componente filantropica si accompagna uno spregiudicato pragmatismo commerciale: così congiunte, queste istanze favoriranno la scoperta delle regioni centrali dell’Africa” (L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, pp.29-30).

Verso la fine dell’800, l’interesse per il territorio africano non è più solo privato, anche le singole nazioni iniziano a sovvenzionare le spedizioni scientifiche, col fine di appropriarsi di territori per la gestione politica ed economica di vaste aree. Inizia la conquista coloniale. Le spedizioni non sono più finalizzate alla scoperta scientifica e sono affidate a comandanti militari. Questi partono alla scoperta di terre vergini, firmano trattati con i sovrani delle società locali e cercano di mantenere i rapporti con i militari delle nazioni concorrenti nell’accaparrarsi più territori possibili. Nascono i protettorati, legami fra nazioni europee e regni africani e le colonie vere e proprie.

“È chiaro, dunque, che dietro il comune denominatore dell’esplorazione in Africa esistono motivazioni diverse, intimamente connesse, spesso combinate tra loro: curiosità, civilizzazione, cristianizzazione, commercio, colonizzazione” L’Africa, esploratori nel continente nero, Anne Hugon, p. 32).

La scoperta della costa occidentale
Agli inizi dell’Età Moderna i paesi europei conoscevano soltanto la parte costiera dell’Africa.
I navigatori portoghesi avevano esplorato le coste occidentali del Continente in poco più di 50 anni, tra il 1434 e il 1488. Raggiunto il Capo di Buona Speranza, essi avevano aperto la via marittima che proseguiva oltre Zanzibar, in direzione delle Indie.
A causa delle difficoltà di accesso e delle malattie che colpivano gli uomini e gli animali domestici, i portoghesi non si erano mai spinti nell’entroterra, ma si erano limitati ad installare una serie di scali costieri che servivano da base per i vascelli mercantili e per l’azione dei missionari cattolici.
Dalle cronache dei primi missionari e dai racconti dei mercanti che viaggiavano sulle navi portoghesi o di altra bandiera ci vengono numerosi resoconti, spesso fantasiosi, sulle risorse del paese e sulle usanze degli abitanti.
I portoghesi furono presto seguiti dai francesi, dagli inglesi, dagli olandesi e dai danesi, che insediarono ciascuno le proprie basi costiere. Grazie al commercio con gli europei, si svilupparono piccoli potentati africani. Avorio, oro, ma soprattutto schiavi, erano le “merci” più ricercate. E, proprio in base ad una sorta di mappa delle risorse commerciali, gli europei battezzarono i territori di questo continente con nomi quali: “Costa d’Avorio”, “Costa d’Oro”, “Costa degli Schiavi”, ignorando assolutamente tutto delle popolazioni che vi abitavano.
Intorno al 1575 la richiesta di manodopera da parte della colonia del Brasile incrementò la tratta degli schiavi, trasformando le pacifiche relazioni commerciali in una guerra di conquista che mirava ad alimentare il traffico negriero tra la costa africana e le Americhe.
Il commercio marittimo degli schiavi si sviluppò su larga scala a partire dal XVII sec., trasformando profondamente gli equilibri politici africani e spostando i centri di ricchezza e di potere dall’entroterra verso la costa. La base di rifornimento per la tratta degli schiavi fu stabilita a Luanda, a Nord del Regno dello Ngola (titolo del re degli Mbundu), centro che divenne in seguito la capitale della colonia portoghese dell’Angola.

L’esplorazione dell’interno del Continente
Fino agli inizi del XIX secolo l’Africa era stata per l’Europa poco più di una linea costiera, punteggiata di scali per il commercio e per la tratta degli schiavi. Le uniche società africane allora conosciute dagli Europei erano quelle che abitavano le regioni coperte di foreste dell’Africa Occidentale; non ci si rendeva bene conto che più a Nord, dietro quelle foreste, si stendessero regioni aperte, dove gruppi rurali coltivavano cereali e pascolavano il bestiame e dove esistevano città i cui abitanti commerciavano trasportando i loro manufatti a dorso di cammello lungo le vie carovaniere che collegavano l’Egitto al Maghreb.
L’esplorazione e la conquista delle regioni dell’interno del continente iniziarono e si compirono nell’arco di un secolo, dapprima sull’onda delle prime esplorazioni individuali (Mungo Park, René Caillé, Heinrich Barth) rese possibili dalla scoperta del chinino; e, successivamente, per iniziativa delle Società Geografiche che sorsero nei vari paesi europei.
Le vie di penetrazione attraverso la fitta foresta tropicale seguivano spesso i fiumi: il Senegal, il Niger, lo Zaire, lo Zambesi, consentendo di tracciare poco a poco la carta idrografica dell’Africa. Il problema del corso e delle sorgenti del Nilo fu risolto per ultimo, tra il 1857 e il 1864, in seguito ai viaggi di Burton, Speke e Grant.
Ai tempi delle spedizioni di Stanley e di Livingstone il viaggio alla scoperta dell’Africa rappresentava una prova di eroismo e una dimostrazione di filantropia: le difficoltà di penetrazione nel continente erano note a tutti e vi era inoltre la ferma convinzione che l’Europa avesse il dovere di guidare l’Africa sulla via del progresso e della civiltà.
La prima fase della esplorazione geografica avrebbe dovuto essere caratterizzata da intenti umanitari e dichiaratamente antischiavisti. Tuttavia perseguiva allo stesso tempo anche finalità commerciali, ricercando materie prime e di altre risorse economiche che potessero sostituire i profitti un tempo ricavati dalla tratta degli schiavi.
La scoperta delle regioni interne divenne vera conquista coloniale solo alle soglie del ‘900, quando, dopo il congresso di Berlino (1884), si ebbe la prima spartizione del continente fra le potenze europee.

Origine delle grandi raccolte etnografiche
Nella seconda metà dell’800 il concetto evoluzionista di progresso socioculturale ha alimentato la convinzione della superiorità della cultura europea. Questo approccio etnocentrico ha caratterizzato qualunque tipo di intervento nel mondo africano, trovando la giustificazione della politica espansionistica e della conquista coloniale nell’idea dominante di progresso. La legittimazione di ogni intervento si fondò così sulla necessità morale di favorire l’evoluzione delle popolazioni africane dallo stadio “primitivo” a quello civile.
In concomitanza con la politica di espansione coloniale, nacquero, in Europa e negli Stati Uniti, i grandi musei di Etnografia: vi si raccoglievano e classificavano armi, utensili ed ogni altro tipo di oggetto che testimoniasse il livello di evoluzione dei popoli allora definiti “selvaggi” o “primitivi”.
L’intento della raccolta etnografica era quello di contribuire allo studio degli usi e dei costumi dei popoli che abitavano i territori da conquistare. Le collezioni erano costituite essenzialmente da armi; pochi gli oggetti d’uso; rarissime le sculture, di cui ancora non si percepiva il valore artistico.
Spesso le raccolte che un viaggiatore aveva formato nel corso di mesi andava perduta nelle traversie del viaggio di ritorno; e così accadeva anche per la documentazione scientifica e per gli appunti di terreno.
Gli oggetti che i musei etnografici hanno conservato fino ad oggi costituiscono un documento di usanze spesso dimenticate e di tecniche attualmente quasi del tutto abbandonate. Essi ci offrono anche una immagine dell’incontro fra due culture: quella di chi costruiva e usava gli oggetti e quella di chi li sceglieva.

La scultura africana e l’arte del Novecento
L’attività creativa degli artisti africani si esprime in una vasta gamma di materiali e forme.
La plastica lignea – maschere e statuaria – resta comunque il contributo più significativo della tradizione artistica africana. In essa, più che in altre espressioni formali, è evidente la sostanziale attinenza che lega, nella realtà africana, linguaggio estetico, pensiero religioso e struttura sociale, in una unità inscindibile che è l’elemento caratterizzante la cultura tribale.
Non tutte le tradizioni africane hanno espresso nella plastica lignea il loro universo concettuale: maschere e statuaria, pur in una vasta gamma di stili e sottostili, sono produzione tipica dei popoli stanziali delle regioni occidentali e centrali del Continente a sud del Sahara.
Agli inizi del Novecento la “scoperta” dell’arte africana (e di quella oceaniana) influì sul processo di rivoluzione delle arti plastiche che si verificava in quel periodo in occidente.
La particolare organizzazione dei volumi e l’assoluta mancanza di rapporti convenzionali della cosiddetta “arte negra” ispirarono i nuovi modelli compositivi di Picasso, Vlamink, Derain, Braque, Gris e altri. Le loro opere – come nella plastica tradizionale africana – più che rimandare a sensazioni dedotte dall’universo sensibile, si basano sull’organizzazione armonica delle forme in un rapporto di equilibrio che nulla ha a che vedere con la logica estetica di tipo occidentale.
Con le correnti del cubismo, dell’espressionismo, del futurismo e del fauvismo iniziava cos” la ricerca di nuove soluzioni formali in aperta rottura con lo stile accademico allora imperante in Europa.

La maschera
Nelle culture tribali africane la maschera è l’espressione più autentica del codice morale e religioso, che sostiene la cultura nel suo complesso; è lo strumento più efficace per la continuità e la vitalità del rapporto che l’uomo ha con le forze dell’universo: essa materializza un’idea, una presenza “altra” che supera gli ambiti del reale sconfinando nella dimensione simbolica.
Dal punto di vista formale la maschera presenta una tipologia estremamente varia per materia, proporzioni, decorazioni e per il modo di essere portata.
Solitamente di legno scolpito, essa è spesso arricchita con materiali di varia natura (corna, denti, pelle, piume, bacche, ciuffi di pelo o di capelli, ecc.), tutti elementi che partecipano all’accrescimento della sua forza.
Il tipo di maschera più comune, e più universalmente diffuso, è concepito per essere portato sul volto; altri hanno una struttura a elmo e altri ancora sono in realtà sculture vere e proprie che vengono portate sulla sommità del capo.
Invariato resta comunque il valore semantico che trova applicazione nei più importanti momenti della vita collettiva (iniziazione, funerali, riti di fertilità).
L’efficacia della maschera è strettamente connessa al suo uso dinamico. Essa è concepita per essere vista in movimento in un contesto rituale dove musica e danza favoriscono l’accrescimento della sua forza, sottolineandone le implicazioni simboliche.

La statuaria
La statuaria è l’altra espressione tipica della plastica africana. Al contrario della maschera essa è raramente esibita in pubblico e il suo uso non è strettamente collegato a rappresentazioni collettive; è impiegata per lo più nei rituali privati con l’eccezione delle statue di grandi dimensioni che sono proprietà del villaggio e vengono conservate in luoghi appositi consacrati come templi.
Generalmente in legno, la statuaria africana raffigura, nella maggior parte dei casi, l’antenato idealizzato, ma può anche essere supporto del potere di uno spirito, benefico o malefico, la cui forza deve essere canalizzata in senso positivo mediante offerte propiziatorie. Solo in presenza di strutture politiche centralizzate la statuaria può raffigurare sovrani o importanti personaggi della corte; eseguita per lo più in bronzo, avorio o pietra, essa testimonia in questo caso il bisogno della classe al potere di utilizzare un certo numero di convenzioni iconografiche per rappresentare l’istituzione della sovranità e i suoi attributi superumani.
Benché ogni etnia rappresenti un universo estetico a sé stante, dotato di autonomie stilistiche del tutto singolari, si può dire che per essere efficace la scultura africana deve possedere alcune caratteristiche formali generali: astrazione, luminosità, armonia, simmetria, ieraticità, verticalità, frontalità, staticità.
Queste, lungi dal rappresentare uno sterile esercizio accademico, concorrono ad accrescerne il valore, potenziandone il significato sociale e religioso.

La scultura funeraria
La venerazione dei morti è un elemento culturale costante nella storia dell’umanità e rappresenta uno dei cardini fondamentali delle società dell’Africa Nera.
I defunti rappresentano il legame che congiunge i viventi agli antenati mitici progenitori della stirpe: la loro immagine è il simbolo di questa continuità affettiva e funzionale e la sede della forza sovrannaturale che viene ridistribuita ai viventi attraverso il rituale.
Il culto è molto semplice e ha per lo più carattere individuale o familiare. Il rituale comprende richieste di protezione, preghiere e piccole offerte alimentari e si svolge in genere all’interno delle abitazioni, quasi sempre di fronte a statuette che dei defunti sono il ritratto idealizzato o, più spesso, il ricettacolo della loro forza vitale.
Il culto delle tombe è invece più raro e, in genere, qualche tempo dopo i decessi le sepolture sono abbandonate. Solo alcuni gruppi, per lo più a struttura politica centralizzata, usano collocare, a custodia delle tombe e delle urne che contengono i resti del defunto, sculture che non solo materializzano la forza protettrice dell’antenato, ma che, in alcuni casi, per la cura dei dettagli e la qualità espressiva evocano intenti ritrattistici.

La scultura funeraria: i reliquiari
Tema centrale dell’iconografia dei Kota del Gabon sono le figure di reliquiario poste su recipienti in legno, in scorza o in vegetali intrecciati, contenenti le ossa o il cranio degli antenati e finalizzati a preservarne e a catturarne la forza vitale a beneficio dell’intero gruppo etnico.
Queste immagini tutelari, chiamate mbulu-ngulu sono eseguite in legno rivestito di lamina o nastro di rame e ottone, secondo uno stile totalmente astratto che sintetizza le forme naturali in un assemblaggio di elementi geometrici.
Alcune sculture hanno testa bifronte, da una parte concava, dall’altra convessa: in questo caso prendono il nome di mbulu-viti e simboleggiano le forze contrapposte del cosmo.
Più comunemente il retro del viso non è rivestito di metallo ma semplicemente decorato con incisioni geometriche o con la schematizzazione dell’acconciatura a trecce dei guerrieri o con il simbolo del sesso femminile.
I reliquiari, la cui produzione è finita da tempo, erano conservati in apposite capanne ai limiti del villaggio a cui potevano accedere solo i maschi iniziati.

La scultura funeraria: le figure tombali
Figure commemorative (mintadi) in scisto o stealite, o più raramente in legno, erano collocate, nella regione del Basso Congo, a indicare le sepolture reali o di personaggi importanti.
Queste sculture raffigurano personaggi in posizione seduta, spesso con le gambe incrociate, che recano una serie di segni-simbolo di potere e autorità come il copricapo tronco-conico (ampu) decorato con gli artigli del leopardo, effige ed insegna del sovrano.
Raffigurazioni di donne con bambino erano a volte collocate sulle tombe di personaggi femminili di rango elevato, probabilmente mogli del sovrano o donne di sangue reale. L’iconografia di queste sculture celebra per lo più l’ideale della fertilità femminile ribadendo la centralità della donna nelle strategie sociali dei gruppi a discendenza matrilineare.
La ricorrente asimmetria – così rara nella tradizione scultorea africana –, l’uso di pigmenti colorati sugli occhi e sulla bocca e la fisionomia vagamente orientale dei personaggi hanno fatto pensare, in passato, a influssi stilistici di provenienza asiatica.
In realtà questi manufatti sono una produzione tipica dei Bakongo costieri di cui, nei gesti e nelle posture dei personaggi, nonché nei motivi decorativi raffigurati, esprimono l’universo metafisico.

Le maternità
La rappresentazione della maternità è un tema iconografico ricorrente nella produzione plastica della maggior parte delle società africane.
Questa particolare produzione celebra in tutta l’Africa la donna fertile, perno della società in quanto elemento che assicura la continuità della specie. La fecondità della donna e la fertilità dei campi sono infatti gli elementi fondamentali per la vita e la crescita delle società agricole del Continente a cui si deve la quasi totalità delle sculture di questo tipo.
La rappresentazione della maternità può alludere a volte alla figura dell’antenata primordiale, la “madre mitica” che diede vita al genere umano.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato, per quanto riguarda alcune maternità dell’area congolese, una derivazione dell’iconografia cristiana della Madonna col Bambino: in realtà anche questi esemplari restano, per impianto formale e per significato culturale, tipici esempi dell’arte scultorea africana.
Studi più recenti hanno collegato queste sculture allo sviluppo di un nuovo culto propiziatorio nkisi – chiamato mpenba – legato al trattamento magico delle patologie ginecologiche che nella seconda metà del XIX secolo si diffuse nelle aree di Loango e Cabinda.

Gli antenati
La raffigurazione degli antenati è un’espressione tipica della tradizione artistica africana: essa riflette l’importanza che le società tribali attribuiscono alle relazioni di parentela, fondamentali anche nella sfera mitica e nel mondo dei defunti.
L’antenato è visto e sentito come forza vitale per l’intero suo gruppo di discendenza e come anello di congiunzione tra società dei vivi e mondo degli spiriti; in quanto tale egli è il garante dell’ordine e dell’armonia del villaggio.
In accordo con le intenzioni non descrittive e non imitative dell’arte africana, la statuaria degli antenati non ritrae un antenato particolare ma ne riproduce un’immagine idealizzata, nella quale viene esaltato il concetto di forza vitale. Questa finalità è ottenuta osservando alcune costanti formali:

  • intenzionale sproporzione delle parti anatomiche mediante l’accentuazione della testa e del tronco, sedi della forza vitale, e degli organi sessuali come simbolo di fecondità;
  • posizione statica, che suggerisce però un movimento incipiente – grazie alla particolare angolatura di gomiti e ginocchia -, simbolo della potenza della forza vitale incarnata dall’antenato;
  • assenza di passionalità nel volto e di gestualità, che conferiscono al personaggio un atteggiamento di distacco quasi onirico.

I simboli di autorità
In molte culture africane l’emergere di forme di stratificazione sociale e l’affermarsi di un potere politico centralizzato fondato sul principio di territorialità più che su quello di parentela, hanno prodotto lo sviluppo di un’arte di corte. Questa, essenzialmente legata alla figura del capo-re, è complementare all’arte popolare o di villaggio, che resta invece vincolata alla sua essenza magico-religiosa.
Al bisogno della classe dominante di confermare e legittimare la propria autorità corrisponde infatti l’affermarsi di un’arte aulico-cerimoniale che utilizza per lo più materiali nobili e duraturi (bronzo, pietra e avorio) per la produzione di oggetti simbolo di potere che esaltano e a volte incarnano il concetto stesso di autorità.
Effigi reali, troni, asce d’apparato, bastoni di comando, lance cerimoniali sono quindi funzionali alla gestione del potere in quanto espressione della sua volontà di tramandarsi attraverso la valorizzazione, a livello simbolico, di differenti status sociali.
Lance, scettri e bastoni, sono per lo più simboli essenziali della regalità in quanto attributi della potenza del sovrano. La loro presenza nei rituali di riconferma del potere politico ha lo scopo di evocare gli spiriti protettori dell’istituzione monarchica e di simboleggiare al contempo la continuità della linea dinastica.
Questi regalia materializzano la presenza del sovrano e, come nel caso delle recadi, attribuiscono al portatore un’autorità regale.
Manufatti emblematici di questo tipo sono i sono prodotti nella Guinea Bissau fin dal XVII secolo. Sono insegne cerimoniali in ferro usate come simbolo di potere spirituale e temporale. Possono essere di tipo “maschile”, terminanti in due lame divergenti, o di tipo “femminile” sormontate da sculture a tutto tondo in lega di rame ottenute con il metodo della fusione a cera persa. Il centro tematico di queste sculture è per lo più costituito da una rappresentazione equestre, in tutta l’Africa indice di status e simbolo dell’autorità degli antenati e dei capi.
Emblemi del lignaggio reale, i sono erano conservati in luoghi sacri e costituivano parte integrante dei rituali ciclici legati al potere politico e religioso. Durante le pause delle processioni essi venivano conficcati nel terreno tra il re e il popolo per indicare la sottomissione del gruppo all’autorità del sovrano e a quella del fondatore mitico della dinastia reale, simboleggiato dal sono stesso.

Le sculture magiche
Sono comunemente chiamati “feticci” una serie di oggetti provenienti dal Bacino del Congo, e in particolare dall’area Bakongo, usati come ricettacolo di sostanze magiche e utilizzati nel corso di rituali propiziatori.
Il termine locale è Minkisi (sing. Nkisi) che significa “cose che fanno cose”. I Minkisi possono essere figurativi, rappresentare cioè uomini o animali, o non figurativi, essere costituiti da una conchiglia o da un corno animale o semplicemente da un involucro; non è il tipo di supporto dunque che ne determina le qualità ma le sostanze magiche (bilongo) in esso contenute: il supporto è tuttalpiù un conduttore della forza dello spirito.
Il campo di azione dei Minkisi è molto vasto: essi sono per lo più utilizzati nei culti terapeutici e in genere nei riti di protezione di uomini e cose, ma possono essere anche usati per azioni di stregoneria per operare malefici o provocare malattie e morte, anche a distanza.
La realizzazione di uno Nkisi figurativo è un’operazione congiunta dello scultore e del mago-medico (Nganga), che carica di forza la figura con la collocazione di sostanze – in genere sulla testa o sul ventre – che qualificano l’oggetto e lo rendono operativo. Le essenze magiche possono essere poste all’interno della scultura, in apposite nicchie scavate nel legno, o all’esterno, dentro contenitori aggettanti, generalmente in sostanze resinose.
Dal punto di vista morfologico, i Minkisi figurativi possono essere suddivisi in tre categorie principali:

  • Nkisi reliquiario, caratterizzato dalla presenza di uno specchio – simbolo della lucidità e della chiaroveggenza del celebrante che interpreta l’evento – come chiusura del nucleo magico.
  • Nkisi chiodato, o Nkonde, ricoperto da una quantità di chiodi e lamine di ferro; è spesso caratterizzato dal braccio destro alzato e armato di una lama, gesto di minaccia contro qualsiasi attacco di nemici umani o spirituali. Lo Nganga, conficcando un chiodo nella scultura, libera una forza che dovrà essere gestita e canalizzata, in senso benefico o malefico, mediante apposite formule e riti.
  • Nkisi Mpemba che sfrutta come supporto esclusivamente sculture di maternità, in quanto preposto al trattamento di problemi ginecologici.