Il pericoloso caso di “Repatriation and Erasing the Past”

Pubblicato pochi giorni fa negli Stati Uniti, il volume Repatriation and Erasing the Past tratta in modo provocatorio la questione della restituzione dei resti scheletrici (e non solo) alle comunità indigene di appartenenza. Un tema delicato e complesso che ha visto, nel corso degli ultimi anni, l’acquisizione di una nuova consapevolezza da parte della comunità scientifica, a cui sono seguite – e sono ancora in atto – azioni concrete per rimediare a un passato di dominazioni e soprusi.

Il volume si riferisce unicamente al NAGPRA, acronimo di Native American Graves Protection and Repatriation Act. Si tratta di una legge federale, istituita nel 1990 negli Stati Uniti, che prevede la restituzione di resti umani, oggetti funerari e sacri dei nativi americani, da parte delle istituzioni che le detengono. È una legge che segna uno spartiacque nella storia dei rapporti tra “vincitori e “vinti” nei processi di colonizzazione, tentando di sanare antiche fratture attraverso iniziative di riconciliazione e mediazione. Con questa legge si è cercato infatti di incoraggiare l’apertura di un dialogo continuo tra i musei e le comunità dei nativi americani, senza disconoscere l’importante funzione di preservazione del passato e delle memorie che le istituzioni culturali svolgono nella società.

Orbene, Repatriation and Erasing the Past (scritto da Elizabeth Weiss, professoressa di Bioantropologia della San José State University, in California, e da James W. Springer, avvocato in pensione dello stato dell’Illinois) ci riporta semplicemente indietro di decenni. Si torna ad un tempo in cui si riteneva lecito parlare di razze e disconoscere completamente le istanze e le sensibilità delle comunità da cui provenivano gli oggetti in studio e in esposizione, ignorando, inoltre, le modalità con cui erano stati prelevati. Con toni aspri e di netta opposizione, i due Autori affermano che le richieste di restituzione nascono come movimento fortemente politicizzato, basato su una ideologia della vittimizzazione e piegato ad una visione post-moderna della scienza. Secondo gli stessi, il NAGPRA non sarebbe altro che uno strumento per “ostacolare la ricerca scientifica attraverso la perdita di collezioni, l’inibizione della libertà di indagine e la censura“, (trad. da pagina 194 del volume).

Siamo tutti ben coscienti che il tema è delicato e di non facile ed immediata soluzione. Anche in Italia, con le dovute differenze, il rapporto con le comunità d’interesse e le modalità di cura ed esposizione dei reperti “sensibili” è oggetto di riflessione e discussione. Il Museo delle Civiltà da tempo riflette su tali questioni ed è impegnato nell’adozione di nuove pratiche museografiche in un’ottica di apertura e dialogo. A maggio del 2017, il Museo ha accolto una delegazione Maori del Museo Te Papa della Nuova Zelanda. L’anno seguente, il nostro istituto ha aderito al programma International Visitor Leadership per il “Native American Cultural Heritage”: un ciclo di incontri tra operatori museali e rappresentanti delle comunità indigene.

Ma veniamo ad un’altra grave questione che emerge in tutta evidenza dalle pagine di questo libro: il termine “razza”. Gli Autori usano la parola più volte (ben 37) e con molta disinvoltura. Se siamo pronti a condonare l’uso del termine quando inserito nella storia della disciplina o per discutere aspetti legislativi, o, ancora, per riflettere sulle discriminazioni e criticità dei rapporti tra i diversi gruppi (quindi la “razza” come costrutto e percepito sociale), non altrettanto possiamo fare quando lo stesso termine è utilizzato in discorsi scientifici. Gli Autori non si risparmiano nel descriverci i tanti modi (soprattutto metrici e morfologici) con cui, secondo loro, è stato possibile, ed è tuttora possibile, distinguere le “razze”: “metric and nonmetric cranial traits can distinguish between races” (p. 74), è solo una delle tante affermazioni di questo tenore.

Si potrebbe continuare ancora, estrapolando ogni loro passo scientificamente infondato e socialmente pericoloso, ma fermiamoci qui!

Le colleghe Sian Ellen Halcrow, Gwen Robbins Schug, Stephanie Halmhofer, Annalisa Heppner, Amber Aranui e Kristina Killgrove hanno predisposto una lettera di protesta indirizzata agli autori e alla casa editrice. È possibile sottoscrivere la lettera all’indirizzo:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScl44V3125po-vz9oX6wp5I8evKk0ECxTAKhJ2kvSBUpOhn9A/viewform?fbclid=IwAR2DyHcUOrLuU34YhzALcd6vat_lVhE_uawoUAmlNr1TbhFh8OdgeZMFYIQ