[a cura di Marisa Laurenzi Tabasso, Massimiliano A. Polichetti, Claudio Seccaroni]

Non-invasive analyses on Tibetan paintings from the Tucci’s expeditions, Orientalis, Roma 2011.
(prima edizione: Dipinti Tibetani dalle spedizioni di Giuseppe Tucci.
Materiali e tecniche alla luce delle indagini non invasive, De Luca Editori d’Arte, Roma 2008)
dalla prefazione dei curatori

Marisa Laurenzi Tabasso, Massimiliano A. Polichetti, Claudio Seccaroni

Thang ka in tibetano significa, letteralmente, “superficie piana”, nell’accezione di “ritratto” (zhel thang) o come rappresentazione di una divinità (thang sku o sku thang). Una thangka, così come ormai tradizionalmente inteso, è, in estrema sintesi, l’immagine devozionale caratteristica del Buddhismo tibetano, e viene utilizzata per la meditazione, la preghiera e il culto. In genere le thangka si presentano come dipinti eseguiti su una tela preparata su entrambi i versi, ma non sono rare thangka in cui l’immagine venga ricamata, stampata, tessuta o anche a patchwork.

Il carattere di tali opere fa sì che siano eseguite secondo un rigido protocollo sul quale interviene direttamente la committenza, di solito costituita dai religiosi; ultima fase di esecuzione di una thangka è rappresentata dal rituale di consacrazione in cui possono anche essere vergate delle scritte, in genere sul retro. Parte integrante di una thangka è rappresentata da un complesso apparato di tessili che assume particolari significati e funzioni e che incornicia e può celare, con uno o più veli, in diversi momenti l’immagine. Quando non utilizzata, una thangka viene riposta arrotolata con l’immagine all’interno e in questo modo viene conservata o trasportata nei viaggi (tale aspetto funzionale ha fatto si che ancora oggi il lemma thangka venga talvolta tradotto con “rotolo”). Per tali motivi la thangka non è tesa su un telaio, come solitamente avviene nei dipinti su tela; su un telaio, tuttavia, è stato teso il supporto del dipinto in fase di esecuzione.

Nel corso dei decenni scorsi sono stati pubblicati i risultati di alcuni studi sulle tecniche pittoriche e sulle materie prime impiegate per la produzione delle thangka. Si tratta in genere di indagini riguardanti soprattutto la natura dei pigmenti e dei leganti, effettuate su dipinti, singoli o in piccolo numero, facenti parte di collezioni museali. La ricca collezione di thangka conservate presso il Museo Nazionale d’ Arte Orientale ‘Giuseppe Tucci’ (MNAO) in Roma non era mai stata oggetto di studio dal punto di vista della loro tecnica esecutiva. Il progetto di restauro intrapreso dalla Direzione del Museo, già negli anni ‘90, ha offerto l’occasione per uno studio sistematico su un numero relativamente ampio di opere, diverse tra loro e rappresentative dell’intera collezione. In questo studio, grazie all’uso di molteplici tecniche di indagine e al confronto incrociato dei risultati prodotti da ciascuna di esse, si è cercato di approfondire le conoscenze sulla tecnica pittorica non solo per quello che riguarda i materiali, ma anche le modalità di stesura per la costruzione dell’immagine finale, arrivando, in qualche caso a porre qualche ipotesi su quello che può essere stato il percorso logico seguito dal pittore.

Questo volume nasce come traduzione del libro italiano: Dipinti Tibetani dalle spedizioni di Giuseppe Tucci – Materiali e tecniche alla luce delle indagini non invasive, che conteneva i risultati di una lunga campagna di studi condotta su un gruppo di opere appartenenti alle collezioni del MNAO. La versione inglese, tuttavia, in molte parti si presenta arricchita e aggiornata rispetto al primo volume, il che porta a considerare la versione inglese, a tutti gli effetti, come un nuovo contributo rispetto al modello originale. Tale differenziazione è stata volutamente sottolineata a partire dal nuovo titolo, Visibilia invisibilium, citazione attribuita a papa Adriano I (date del pontificato 772-795) che così si sarebbe rivolto al re Carlomagno nel 787, nelle fasi finali della querelle iconoclastica al centro del secondo concilio di Nicea:

“In veritate et manifeste imagines sunt visibilia invisibilium”

(In verità e in modo evidente, le sacre icone sono la rappresentazione visibile dell’invisibile). Le analisi impiegate sulle sacre icone tibetane, avendo nei fatti “reso visibile l’invisibile” portando all’evidenza un vasto numero di dati grafici e iconografici prima celati, ben si prestano a tale dotta definizione.

Le competenze coinvolte nel volume sono varie e molteplici; l’esposizione degli argomenti avviene sottolineando questo aspetto di collaborazione e integrazione, cercando per quanto possibile di non fare emergere specialismi nel linguaggio e nell’impostazione fini a se stessi, che penalizzerebbero la lettura e la comprensione da parte del lettore estraneo alla conservation science o di quello estraneo all’iconografia del Buddhismo tibetano. Con analogo criterio la struttura dell’indice è stata organizzata seguendo un percorso logico che, partendo dagli oggetti e dal loro iter con cui sono giunti al MNAO, e dalla definizione del contesto collezionistico e degli studi centro-asiatici da cui è nato e in cui si inserisce lo stesso MNAO, giunge alla lettura dei significati insiti nella realizzazione di queste opere in relazione alle risultanze emerse dalle indagini scientifiche.

Nell’esposizione di tali dati la trattazione degli argomenti segue un percorso ideale che in qualche modo ricalca l’iter esecutivo: supporto, disegno preparatorio, scritte celate, pianificazione delle cromie, strati pittorici, cornici tessili, queste ultime discusse sia dal punto di vista conservativo che storico-artistico.

Il discorso trasversale volutamente portato avanti ci ha infine motivato a inserire in chiusura del volume delle schede riferite ai singoli dipinti, contenenti in forma concisa i risultati delle indagini condotte su ciascun’opera, così come delle schede informative, anch’esse concise, sulle tecniche diagnostiche impiegate.

Il team che ha svolto le analisi apparteneva a istituzioni tra le più rappresentative in questo campo specifico nel panorama italiano: ENEA (Italian National Agency for New Technologies, Energy and Sustainable Economic Development), OPD (Opificio delle Pietre Dure), CNR-INOA (National Research Council-National Institute of Optics), ICCROM (International Centre for the Preservation and Restoration of Cultural Property) e ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, former ICR Istituto Centrale del Restauro).

L’approccio diagnostico utilizzato ha previsto l’impiego esclusivo di tecniche di indagini non distruttive, la cui applicazione ai beni culturali è stata da molti decenni promossa in Italia, e che nelle istituzioni sopra citate ha da tempo raggiunto livelli di eccellenza anche in campo internazionale. Forti di questo bagaglio è stato pertanto possibile addentrarsi con successo in territori inconsueti per chi ha solitamente operato sulle opere d’arte occidentale, grazie alla capacità e alla maturità raggiunta dal team di esperti e alla sinergia tra tutti i partner.

Le ricerche sui dipinti pubblicate per esteso nel volume hanno consentito di esplorare in maniera innovativa un campo, quello della pittura tibetana, ancora poco frequentato in Occidente (ma non solo) se non a livello specialistico, mettendo a fuoco aspetti legati alla tecnica pittorica, alla caratterizzazione e alla circolazione dei materiali che potranno produrre un notevole arricchimento di conoscenze a livello internazionale. A ciò hanno contribuito anche l’unicità e l’eccezionalità dei dipinti indagati, recati in Europa da Giuseppe Tucci a seguito delle sue missioni scientifiche in Tibet e nel resto dell’area himalayana.

Ulteriori approfondimenti in: Scientific investigations on Tibetan scroll paintings

http://www.museorientale.beniculturali.it/index.php?it/308/scientific-investigations-on-tibetan-scroll-paintings